giovedì 28 agosto 2008

Leonforte

Yuan An Gao Wo

L'umorismo, l'arguzia e la ricchezza del linguaggio pechinese che si esprime nei nomi dei vicoli antichi è troppo speciale per privare il lettore del piacere di una traduzione.
Letteralmente il nome completo del vivolo "Yuan An Gao Wo" significa: "disteso nel letto con coraggio morale ma a stomaco vuoto".
Nasce da un aneddoto popolare su un certo Yuan An vissuto durante la dinastia Dong Jin (317-420 d.C.).
Un inverno la città venne sommersa da una nevicata di dimensioni eccezionali e la gente del popolo fu costretta a uscire di casa per elemosinare un pò di cibo. Yuan An rimase a letto perchè preferiva morire di fame piuttosto che umiliarsi a chiedere la carità.
Generazioni successive si tramandarono la memoria di Yuan An elogiandone la tempra non senza una punta di ironia e crearono l'espressione "Yuan An che rimase a letto con coraggio morale (ma senza cibo)".


da "L'ombra di Mao" di Federico Rampini - Aroldo Mondadori Editore - 2006

Cefalù

Ricambi, alternanze, innovazioni, valori e identità: Concita De Gregorio

Sono cresciuta in un Paese fantastico di cui mi hanno insegnato ad essere fiera. Sono stata bambina in un tempo in cui alzarsi a cedere il posto in autobus a una persona anziana, ascoltare prima di parlare, chiedere scusa, permesso, dire ho sbagliato erano principi normali e condivisi di una educazione comune. Sono stata ragazza su banchi di scuola di città di provincia dove gli insegnanti ci invitavano a casa loro, il pomeriggio, a rileggere ad alta voce i testi dei nostri padri per capirne meglio e più piano la lezione. Sono andata all’estero a studiare ancora, ho visto gli occhi sbigottiti di coloro a cui dicevo che se hai bisogno di ingessare una frattura, nei nostri ospedali, che tu sia il Rettore dell’Università o il bidello della Facoltà fa lo stesso, la cura è dovuta e l’assistenza identica per tutti. Sono stata una giovane donna che ha avuto accesso al lavoro in virtù di quel che aveva imparato a fare e di quel che poteva dare: mai, nemmeno per un istante, ho pensato che a parità di condizioni la sorte sarebbe stata diversa se fossi stata uomo, fervente cattolica, ebrea o musulmana, nata a Bisceglie o a Brescia, se mi fossi sposata in chiesa o no, se avessi deciso di vivere con un uomo con una donna o con nessuno. Ho saputo senza ombra di dubbio che essere di destra o di sinistra sono cose profondamente diverse, radicalmente diverse: per troppe ragioni da elencare qui ma per una fondamentale, quella che la nostra Costituzione – una Costituzione antifascista - spiega all’articolo 2, proprio all’ inizio: l’esistenza (e il rispetto, e il valore, e l’amore) del prossimo. Il “dovere inderogabile di solidarietà” che non è concessione né compassione: è il fondamento della convivenza. Non erano mille anni fa, erano pochi. I miei genitori sapevano che il mio futuro sarebbe stato migliore del loro. Hanno investito su questo – investito in educazione e in conoscenza –ed è stato così. È stato facile, relativamente facile. È stato giusto. Per i nostri figli il futuro sarà peggiore del nostro. Lo è. Precario, più povero, opaco. Chi può li manda altrove, li finanzia per l’espatrio, insegna loro a “farsi furbi”. Chi non può soccombe. È un disastro collettivo, la più grande tragedia: stiamo perdendo la fiducia, la voglia di combattere, la speranza. Qualcosa di terribile è accaduto negli ultimi vent’anni. Un modello culturale, etico, morale si è corrotto. La politica non è che lo specchio di un mutamento antropologico, i modelli oggi vincenti ne sono stati il volano: ci hanno mostrato che se violi la legge basta avere i soldi per pagare, se hai belle le gambe puoi sposare un miliardario e fare shopping con la sua carta di credito. Spingi, salta la fila, corrompi, cambia opinione secondo la convenienza, mettiti al soldo di chi ti darà una paghetta magari nella forma di una bella presidenza di ente pubblico, di un ministero. Mettiti in salvo tu da solo e per te: gli altri si arrangino, se ne vadano, tornino a casa loro, crepino. Ciò che si è insinuato nelle coscienze, nel profondo del Paese, nel comune sentire è un problema più profondo della rappresentanza politica che ha trovato. Quello che ora chiamiamo “berlusconismo” ne è stato il concime e ne è il frutto. Un uomo con un potere immenso che ha promosso e salvato se stesso dalle conseguenze che qualunque altro comune cittadino avrebbe patito nelle medesime condizioni - lo ha fatto col denaro, con le tv che piegano il consenso- e che ha intanto negli anni forgiato e avvilito il comune sentire all’accettazione di questa vergogna come fosse “normale”, anzi auspicabile: un modello vincente. È un tempo cupo quello in cui otto bambine su dieci, in quinta elementare, sperano di fare le veline così poi da grandi trovano un ricco che le sposi. È un tempo triste quello in cui chi è andato solo pochi mesi fa a votare alle primarie del Partito Democratico ha già rinunciato alla speranza, sepolta da incomprensibili diaspore e rancori privati di uomini pubblici. Non è irrimediabile, però. È venuto il momento di restituire ciò che ci è stato dato. Prima di tutto la mia generazione, che è stata l’ ultima di un tempo che aveva un futuro e la prima di quello che non ne ha più.Torniamo a casa, torniamo a scuola, torniamo in battaglia: coltivare i pomodori dietro casa non è una buona idea, metterci la musica in cuffia è un esilio in patria. Lamentarsi che “tanto, ormai” è un inganno e un rifugio, una resa che pagheranno i bambini di dieci anni, regalargli per Natale la playstation non è l’alternativa a una speranza.“Istruitevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza”,diceva l’uomo che ha fondato questo giornale. Leggete, pensate,imparate, capite e la vita sarà vostra. Nelle vostre mani il destino.Sarete voi la giustizia. Ricominciamo da qui. Prendiamo in mano il testimone dei padri e portiamolo, navigando nella complessità di questo tempo, nelle mani dei figli. Nulla avrà senso se non potremo dirci di averci provato.

Da: “Il nostro posto” di Concita De Gregorio – (l'Unità Anno 85 n. 232 - sabato 23 agosto 2008)

lunedì 25 agosto 2008

Equilibri precari (La Habana)

Il senso civico dei furbi e dei fessi (Armando Massarenti)

Giuseppe Prezzolini nel 1921 scrisse un “Codice della vita italiana” che all’art. 1 recitava: “I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi”. Articolo 2: “Non c’è una definizione di fesso. Però se uno paga il biglietto intero in ferrovia; non entra gratis a teatro; non ha un commendatore zio, amico della moglie e potente sulla magistratura, nella pubblica istruzione, eccetera; non è massone o gesuita; dichiara all’agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, eccetera; questi è un fesso”. L’individualismo esasperato, l’abitudine al piccolo inganno, il badare solo ai propri interessi, il servilismo sono alcuni dei difetti che Prezzolini attribuiva agli italiani. Ai furbi s’intende, che però non sono così astuti se finiscono per vivere di piccinerie. Alberto Sordi li ha immortalati nel nostro cinema. Se invece avesse dovuto ritrarli uno scienziato sociale, non avrebbe esitato a definirli dei free riders indefessi, battitori liberi che approfittano della buona fede degli altri per massimizzare il proprio vantaggio. Ma gli italiani, presi nel loro complesso, davvero non pensano ad altro che al proprio interesse? Economisti e teorici delle decisioni razionali ci spiegano che, dal punto di vista del mero calcolo degli interessi, votare non conviene. Il valore di un singolo voto è praticamente nullo, non sposta nessun equilibrio. Tanto vale lasciare perdere e andare al mare, comportandosi, appunto, da free rider, lasciando cioè che siano gli altri a fare il proprio dovere. Il fatto che invece, nei Paesi democratici, siano così tanti a recarsi alle urne, dimostra che anche altri fattori determinano il comportamento degli individui: il senso di identità e appartenenza, lo spirito civico, il desiderio di partecipare alla definizione del bene comune. E gli italiani non fanno eccezione. Anzi, spesso raggiungono eccessi di zelo del tutto eccentrici. Lo dimostra il seguente episodio. Due coniugi, sapendo che ‘altro avrebbe votato per il centro-destra e l’altro per il centro-sinistra, nel 2001 concordano di non andare a votare. Tanto il voto dell’uno avrebbe annullato quello dell’altro. Solo cinque anni più tardi, per puro caso, uno dei due ha scoperto che l’altro aveva votato di nascosto. Il codice di Prezzolini funziona, ma è soggetto a interpretazioni sorprendenti.

Armando Massarenti – da: “Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima” – Ed. Il Sole 24 Ore

venerdì 22 agosto 2008

Mandorlo in fiore (AG)

L'AGNELLO INFURBITO

Un lupo che beveva in un ruscello
vidde, dall' antra parte de la riva,
l' immancabbile Agnello.
-Perché nun venghi qui? - je chiese er Lupo -
L' acqua , in quer punto, é torbida e cattiva
e un porco ce fa spesso er semicupo.
Da me, che nun ce bazzica er bestiame,
er ruscelletto é limpido e pulito... -
L' Agnello disse: - Accetterò l' invito
quanno avrò sete e tu nun avrai fame.

(Trilussa)

Across The Universe

Across The Universe


Across The Universe

Words are flying out like endless rain into a paper cup,

They slither while, they pass, they slip away across the universe
Pools of sorrow, waves of joy are drifting through my open mind,
Possessing and carresing me.
Jai Guru Deva Oh,
Nothing's gonna change my world,
Nothing's gonna change my world,
Nothing's gonna change my world,
Nothing's gonna change my world
Images of broken light which dance before me like a million eyes,
That call me on and on across the universe,
Thoughts meander like a restless wind inside a letter box,
They tumble blindly as they make their way across the universe
Jai Guru Deva Oh,
Nothing's gonna change my world,
Nothing's gonna change my world,
Nothing's gonna change my world,
Nothing's gonna change my world.
Sounds of laughter shades of eath are ringing through my open views
Inciting and inviting me.
Limitless undying love which shines around me like a million suns
It calls me on and on across the universe.
Jai Guru Deva Oh,
Nothing's gonna change my world,
Nothing's gonna change my world,
Nothing's gonna change my world,
Nothing's gonna change my world.

( J. Lennon, P. McCartney)

Castel di Tusa

Il più bello dei mari

Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l'ho ancora detto.

giovedì 21 agosto 2008

Guidaloca (Scopello)

ROTTA DEL SAHARA: regata velica ovvero viaggio avventura


Rientrato finalmente a casa e con un’abbronzatura esagerata, Salvo si apprestò a scrivere al suo caro amico, cercando di raccontare con distacco il resoconto di quell’ultima esperienza umana che aveva vissuto in sua vece.

“Carissimo, come forse già sai, ti informo che alla fine ho accettato di prendere il tuo posto in quella regata a cui tenevi tanto; quindi, per darti idea di quello a cui giocoforza hai dovuto rinunciare, te ne faccio in breve il racconto (continua)

sc

mercoledì 20 agosto 2008

Stagnone

Storia di una contravvenzione

«Dottò abbiamo preso la multa!» mi dice con tono rassegnato il tassista.
«Che volete dire con “abbiamo preso la multa”? Che l’ho presa pure io?»
«Ebbè mi pare evidente.»
«Veramente non capisco. Allora secondo voi, vi sembra normale che chi guida commette l’infrazione e chi sta seduto dietro deve pagare la multa?»
«E no dottò, perdonatemi, ma adesso state sbagliando siamo giusti! Voi prima dite “Andate di fretta” e poi non ne volete pagare le conseguenze.»
«Ma quale fretta?! E che c’entra la fretta?!»
«E come che c’entra? Voi come mi avete detto quando siete, salito alla stazione? “Andate di fretta agli aliscafi per Capri”. Avete detto così, sì o no?»
«Sentite, a prescindere che io ho detto solo “Agli aliscafi per Capri, ma quando anche avessi aggiunto “di fretta”, fino a prova contraria il responsabile dell’automezzo siete solo voi»
«E già ma a me che me ne importava di passare con il rosso? Se l’ho fatto è per farvi un piacere e per farvi arrivare prima agli aliscafi. Vuoi vedere adesso che invece di guadagnare, quando lavoro, ci debbo pure rimettere?»
«Un’altra volta non passavate con il rosso.»
«Io veramente sono passato con il giallo, io! Voi non lo so. Comunque adesso sta venendo la guardia e così vediamo che dice.»
«Ma che deve dire, scusate? Che se il conducente passa con il rosso, viene ritirata la patente al passeggero?»
«Non lo so, adesso vediamo.»
Il vigile si avvicina con lentezza, saluta militarmente dice:
«Patente e libretto di circolazione.»
«Scusate signora guardia,» dice il mio tassista mentre tira fuori i documenti richiesti «adesso voi siete una persona che lavora, no? Tutto il giorno qua in mezzo, piove o non piove. Io pure lavoro, il signore invece va a Capri. Ora secondo voi, chi deve pagare la multa?»
«Mah!» dice ridendo la guardia. «Se il signore vuole contribuire spontaneamente, io non ci trovo niente da dire.»
«Ma che contribuire e contribuire! Io non tiro fuori una lira.»
«Veramente» dice uno dei tanti spettatori che attorniano il nostro taxi «il signore ha ragione. La multa la paga il conducente però il signore deve anche capire che dopo gli deve dare una mancia adeguata per risarcirlo del danno subito.»
«Quello è padre di figli!» aggiunge una vecchietta infilando la testa nel finestrino del taxi. «è uscito per vedere come si può abbuscare (guadagnare) una mille lire e adesso non se la può spendere tutta insieme per pagare la multa al signore che deve andare a Capri.»
«Signora guardia,» dice il mio tassista uscendo dal taxi per parlare meglio con il vigile «pensate che prima di affittare ho fatto tre ore di fila a piazza Garibaldi e che quando ho visto il signore io mi credevo che era straniero, che se sapevo che era napoletano e pure un poco tirato di mano, io non lo facevo nemmeno salire...»
«Sentite,» dico io guardando l’orologio «o mi accompagnate o me ne vado. Io qua perdo l’aliscafo.»
«Lo vedete che andate di fretta!» dice trionfante il tassista.
«E va bene» dice il vigile. «Per questa volta andate pure. Però ricordatevi che la prossima volta mi pagate questo e quello. Quando uno si va a divertire non deve andare mai di fretta, se no che divertimento è.»
Fu così che il mio taxi si avviò in mezzo ad una folla sorridente e soddisfatta.
«Meno male dottò che è finito tutto bene» mi dice il tassista all’arrivo. «Vi giuro però su quella cara immagine, che se la guardia vi faceva pagare la contravvenzione, a me mi sarebbe veramente dispiaciuto.»
«Quant’è?» chiedo laconicamente mentre scendo dal taxi
«Fate voi…»

Luciano De Crescenzo ("Così parlò Bellavista" - 1977 Arnoldo Mondadori Editore)

martedì 19 agosto 2008

Paceco: Saline Culcasi

Il Poeta della materia (Armando Massarenti)

Richard Feynman, si dice, era un genio. Non solo perché la teoria che nel 1965 gli valse il Nobel, l’elettrodinamica quantistica (QED, cioè “la strana teoria della luce e della materia” che spiega l’interazione tra elettroni e radiazioni elettromagnetiche), è la più potente e onnicomprensiva: rende conto di tutti i fenomeni elettrici e magnetici, abbracciando tutto ciò con cui abbiamo a che fare nella vita di tutti i giorni, a eccezione della gravità.
La genialità di Feynman nasce dal suo particolare stile di vita e di pensiero – che è tutt’uno con la sua straordinaria creatività scientifica e la sua, spesso commovente, carica umana. Insomma, l’ideale per i giovani d’oggi a caccia di esempi da seguire. Per Feynman l’impresa scientifica era divertimento puro, da esercitarsi nella massima libertà e contro ogni autorità. Conoscere il mondo era per lui la più alta forma di poesia.
“Ho un amico artista” ha raccontato una volta, “e non sempre sono d’accordo con le sue opinioni. Magari prende in mano un fiore e dice: “Guarda com’è bello!” E sono d’accordo. Poi aggiunge: “Io, in quanto artista, riesco a vedere com’è bello un fiore. Voialtri scienziati lo fate a pezzi e diventa noioso”. E io penso che sragioni. Molte domande affascinanti nascono dal sapere scientifico: questo può soltanto accrescere il senso di meraviglia, di mistero, di rispetto che si prova davanti a un fiore. Accrescere soltanto. Non capisco come e che cosa potrebbe diminuire”.
Feynman, come molti fisici, non amava la filosofia: amava l’arte, la musica, la poesia. Ma in alcuni suoi versi (molto leopardiani) e, oserei dire, in tutta la sua opera, troviamo profondità filosofiche che invano cercheremmo altrove:

“Fuori dalla culla,
sulla terra asciutta,
qualcosa si alza:
atomi con una coscienza,
materia con curiosità.
In piedi davanti al mare,
stupito del mio stupore: io,
un universo di atomi,
un atomo nell’universo.”

La visione scientifica del mondo in pura poesia.

Armando Massarenti – da: “Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima” – Ed. Il Sole 24 Ore

Aragona (AG)

Il servo padrone (di Massimo Fini)

GIANFRANCO FINI
> Data di nascita: 3 gennaio 1952
> Padre biologico: Argenio Fini
> Padre putativo: Giorgio Almirante
> Madre biologica: Erminia Daniela Marani
> Madre putativa: Assunta Almirante
> Padre sostitutivo: Teodoro Buontempo, detto “er pecora”
> Età parlamentare: vetusta, è deputato dal 1983
> Segni particolari: nessuno.

Quello di Gianfranco Fini, presidente di An e ora anche ministro degli Esteri, è un mistero. Doloroso. Soprattutto per la Destra. Per quanto ci si sforzi e si aguzzi l’ingegno non si riescono a trovare le ragioni della sua fortuna politica. Ha l’appeal di un pesce lesso o di una lucertola, animale a sangue freddo. Non ha la rude affettività di Bossi, ma neanche l’aria da simpatica canaglia di Berlusconi, al massimo sta al livello di Follini. Forse l’unico dei “big” cui potrebbe essere apparigliato, per l’atteggiamento scostante e superbioso, è Massimo D’Alema. Ma il presidente dei Ds, che esce dalla Normale di Pisa, è un uomo di cultura, Fini, che, come Pera, viene dagli studi di ragioneria, no. “Anzi, la cultura la disprezza” mi ha detto una volta Gennaro Malgieri, direttore del Secolo d’Italia poi, di fatto, costretto alle dimissioni, uno dei pochi uomini di spessore di An, intellettuali che Fini ha diligentemente e sistematicamente eliminato o emarginato, dallo stesso Malgieri a Fisichella e Menniti. Non ha nemmeno capito che dagli avversari bisogna prendere, per poi trasformare a modo proprio, quello che hanno di positivo, e che se la cultura comunista ha dominato per mezzo secolo in Italia (con conseguenti e succose ricadute politiche) è perché il Pci nella cultura aveva investito. Per sapere che gode di pochissima considerazione anche fra i suoi “colonnelli“ non era necessario aspettare le “quattro chiacchiere al bar” carpite dallo stagista del Tempo. Essendo l’unico intellettuale italiano, insieme a Giampiero Mughini, che negli anni ’80 frequentava le convention del Msi (non perché condividessi, naturalmente, ma per testimoniare il diritto all’esistenza politica di tre o quattro milioni di elettori, esclusi dalla truffa dell’“arco costituzionale”) ho conosciuto abbastanza bene quasi tutti coloro che oggi sono ai vertici di An e che allora erano dei ragazzi (Gasparri, Alemanno, Malgieri e molti altri) e dalle loro bocche non ho mai sentito uscire una sola parola di apprezzamento per Gianfranco Fini. I giovani di An poi, che ogni tanto mi invitano nei loro circoli perché consonano con alcune delle mie idee, lo detestano. Perché, pur di rifarsi una verginità, ha buttato a mare l’intero patrimonio ideale del fascismo (anche, per fare un esempio, alcuni concetti, come quello di autarchia, che oggi, in tempi di globalizzazione selvaggia, potrebbero tornare buoni, sia pur non più a livello nazionale ma europeo) e, scimmiottando lessicamente Bush, ha definito il regime mussoliniano “il Male Assoluto”, azzardo cui non erano arrivati nemmeno i comunisti. Pur di rimanere nel salotto buono della politica è disposto a vendere la madre oltre che il padre putativo, Almirante. E infatti in questi anni non ha fatto politica, si è limitato ad appecoronarsi a Berlusconi, in un modo così servile e sciocco che come cognome più del suo gli si adatterebbe meglio quello della moglie, che fa Di Sotto. Da Berlusconi ha mutuato l’americanismo “senza se e senza ma”. Ora, quando nel 1985 partecipai a Taormina a una convention dell’Msi cui erano presenti migliaia di giovani di quel partito, fra cui i “colonnelli” di oggi, e dissi “Non ho mai capito perché voi missini siete atlantisti” ricevetti la più lunga “standing ovation” della mia carriera. Ma, soprattutto, Fini ha appoggiato senza riserve la devastante campagna di Berlusconi contro la magistratura italiana (e tutte le infami leggi “ad personam”), dimenticando che è stato proprio grazie alle inchieste di Mani Pulite se l’Msi, poi An, e lui stesso, sono potuti tornare all’onor nel mondo politico dopo quarant’anni di emarginazione. Ma non è un problema di riconoscenza. Il fatto è che il concetto di Destra può essere declinato in mille modi, ma su una cosa le Destre di tutto il mondo sono concordi: nella difesa di “law and order”. Solo in Italia abbiamo una Destra indecente che spara a zero sulla magistratura, e soprattutto su quella più efficiente, per cui oggi non c’è islamico integralista che, preso con le mani nel sacco, non gridi al “complotto” e all“accanimento giudiziario”. Questi sono i risultati. Anche Umberto Bossi ha appoggiato Berlusconi, non in tutto peraltro, ma perlomeno si è fatto dare una contropartita: la devolution. Il leader di An lo ha fatto invece “a gratis”. Forse Gianfranco Fini è stato indotto a questo atteggiamento così poco autonomo e sottomesso, che ha privato il suo partito di ogni identità, perché è consapevole – e questo sarebbe già un segno di intelligenza – della propria mediocrità, che però è all’origine della sua straordinaria suscettibilità e del suo dispotismo. Ha azzerato i vertici del partito, lo ha commissariato e quasi distrutto per “quattro chiacchiere al bar” che ledevano la sua personcina (se gli uomini di An non sono liberi di dire le proprie fregnacce almeno al bar dove lo saranno mai?). Gianni Alemanno ha commentato: “Basta con l’idea di un capo che pensa per tutti”. Il problema è che Fini non pensa per tutti, pensa, da sempre, solo a se stesso. Io lo chiamo“il Fini sbagliato”.

Il servo padrone d i M a s s i m o F i n i (4 agosto 2005: pag. 98 G.U. – Rubrica: Elogi e stroncature)

Campagne di Tagliavia (Corleone)

Massimo Fini: "La gente ha capito,la democrazia rappresentativa è una truffa"

Nel suo ultimo libro, "Il Ribelle dalla A alla Z", non lascia adito a dubbi: "la democrazia rappresentativa è un ingegnoso sistema per metterlo nel culo alla gente, e soprattutto alla povera gente, col suo consenso".
Massimo Fini, 62 anni, firma storica del giornalismo italiano (ha scritto per l'"Europeo", il "Giorno", "L'Indipendente"), oggi opinionista per le testate del Quotidiano Nazionale e per il Gazzettino, scrittore di successo (sono suoi i bestseller "Il Vizio Oscuro dell'Occidente" e "Sudditi. Manifesto contro la democrazia") fondatore di Movimento Zero, presente anche a Vicenza, è l'unico intellettuale in Italia a sottoporre a una critica radicale il pensiero unico liberaldemocratico e la divisione fra Destra e Sinistra, che considera "illusoria". Per questo valuta positivamente l'esperimento di democrazia diretta tentato a Vicenza come ci spiega in questa intervista esclusiva.
Domenica 10 settembre i cittadini di Vicenza saranno chiamati a votare un referendum sulla democrazia diretta, che nei tuoi scritti consideri la sola vera democrazia storicamente realizzata.

D. Perché la democrazia diretta è migliore di quella rappresentativa?

R. Per il semplice fatto che la democrazia rappresentativa con l'elezione di rappresentanti fa sì che questi si costituiscano in un'oligarchia che fa i suoi interessi e non quelli dei cittadini, com'è sempre avvenuto e com'è stato ampiamente dimostrato innumerevoli volte.

D. Gli oppositori del referendum sostengono che con un sistema diretto le istituzioni elettive sarebbero svuotate di senso. Vero o falso?

R. Sì, è vero, tutti i sistemi di democrazia diretta finiscono con lo svuotare quelli rappresentativi. Ma questo è logico, se se ne accettano le premesse.

D. La democrazia ha come ragion d'essere la libertà del singolo cittadino. Tu invece sostieni che oggi è l'opposto: l'individuo è un suddito, né più né meno che in altri regimi, come quello monarchico ad esempio. Perché invece che cittadini saremmo sudditi?

R. Perché queste oligarchie politiche, ovvero i partiti, fanno quello che vogliono. Ciò che avviene in parlamento è la facciata, la superficie, ma in realtà le vere decisioni vengono prese dietro le quinte. Il cittadino crede di scegliere, e invece è una truffa.

D. Il referendum propone un quorum basso, il 10% degli aventi diritto, motivandolo come uno stimolo necessario alla partecipazione. Secondo te così si tutelano i diritti del singolo elettore?

R. Mi pare che in Svizzera non sia nemmeno previsto un quorum, eppure il sistema funziona benissimo. E' una questione di costume, di abitudine, di educazione alla democrazia diretta. Si tratta di saperla usare, possibilmente non nel modo dissennato che ne ha fatto il Partito Radicale in Italia.

D. Hai scritto: "Oggi si vota con la stessa razionalità con cui si tifa Lazio, Milan o Inter", cioè in base a fattori emotivi e identitari più che valutativi e razionali. Con una democrazia diretta sarebbe diverso?

R. Sì, perché in luoghi circoscritti chi va a votare sa che cosa vota. E' vero che i media restano in mano alle oligarchie politiche ed economiche, e che c'è tutta una serie di fattori che vanno oltre lo stretto ambito politico. Ma io parto dal presupposto che Destra e Sinistra sono categorie obsolete e illusorie. Noi siamo spettatori di una partita in cui sono sempre loro, le oligarchie, a giocare. Ecco perché quando i due popoli di destra e sinistra vanno in piazza non fanno che illudersi di scegliere.

D. Tu hai scritto che per concretizzarsi una democrazia diretta presuppone la conoscenza reale della materia da decidere, e questo avviene solo a livello locale. La strada intrapresa a Vicenza nell'ambito di un singolo Comune è quella giusta?

R. Diciamo che è un segnale. Però bisogna tener presente che il trend di fondo va in direzione contraria: pensiamo alla globalizzazione, allo 'stato mondiale unico'.

D. Nel comitato promotore, Più Democrazia, ci sono anche singole personalità di partito, e alcune forze politiche hanno appoggiato la campagna per il referendum, anche a livello economico. Tuttavia l'impressione è che i partiti restino indifferenti all'esito referendario. Che ne pensi?

R. I partiti sono chiaramente ostili perché la democrazia diretta toglie loro potere. Ma per non sembrare antidemocratici, fanno finta di appoggiare tentativi come questo. Sono i partiti a scegliere per noi, noi cittadini non scegliamo nemmeno più i candidati, come ha stabilito anche l'ultima legge elettorale. Bobbio, che non può essere tacciato di essere un antidemocratico, scriveva che "l'unica vera opinione è quella di coloro che non votano perché hanno capito che le elezioni sono un rito cui ci si può sottrarre senza danni". Io infatti non vado più a votare. Perché gli apparati fanno prevalere chi vogliono, non chi vogliamo noi.

D. In concomitanza con la campagna referendaria, Vicenza ne sta vivendo un'altra: quella contro una seconda base militare Usa in città, anche se l'ultima parola spetta al Governo. Tu credi che la democrazia diretta locale potrebbe essere la soluzione?

R. Sì, può esserlo, com'è successo di recente in Sardegna nel caso della Maddalena. Ma se poi la decisione finale resta al governo e la base invece che da voi viene fatta da un'altra parte, siamo daccapo. Il problema è il conflitto fra istanze locali e Stato nazionale, e finchè quest'ultimo non imploderà su se stesso poco si può fare. Si potrebbe fare di più se a mediare con lo Stato nazionale ci fossero delle macroregioni coese socialmente economicamente e politicamente, all'interno di un’Europa unita, armata, nucleare e autarchica, cioè liberata dagli Stati Uniti e dalla globalizzazione.

D. In definitiva se tu fossi un cittadino di Vicenza come voteresti il 10 settembre?

R. Voterei sì, anche se, ripeto, è più un segnale che un'azione. Un segnale importante però: la gente si è stufata di dover subire le decisioni dall'alto.

di ALESSIO MANNINO /(Vicenza Più – 2 settembre 2006)

Poggioreale

Ballata delle madri

Mi domando che madri avete avuto.
Se ora vi vedessero al lavoro
in un mondo a loro sconosciuto,

presi in un giro mai compiuto

d’esperienze così diverse dalle loro,

che sguardo avrebbero negli occhi?

Se fossero lì, mentre voi scrivete

il vostro pezzo, conformisti e barocchi,

o lo passate a redattori rotti

a ogni compromesso, capirebbero chi siete?

Madri vili, con nel viso il timore

antico, quello che come un male

deforma i lineamenti in un biancore

che li annebbia, li allontana dal cuore,

li chiude nel vecchio rifiuto morale.

Madri vili, poverine, preoccupate

che i figli conoscano la viltà

per chiedere un posto, per essere pratici,

per non offendere anime privilegiate,

per difendersi da ogni pietà.

Madri mediocri, che hanno imparato

con umiltà di bambine, di noi,

un unico, nudo significato,

con anime in cui il mondo è dannato

a non dare né dolore né gioia.

Madri mediocri, che non hanno avuto

per voi mai una parola d’amore,

se non d’un amore sordidamente muto

di bestia, e in esso v’hanno cresciuto,

impotenti ai reali richiami del cuore.

Madri servili, abituate da secoli

a chinare senza amore la testa,

a trasmettere al loro feto

l’antico, vergognoso segreto

d’accontentarsi dei resti della festa.

Madri servili, che vi hanno insegnato

come il servo può essere felice

odiando chi è, come lui, legato,

come può essere, tradendo, beato,

e sicuro, facendo ciò che non dice.

Madri feroci, intente a difendere

quel poco che, borghesi, possiedono,

la normalità e lo stipendio,

quasi con rabbia di chi si vendichi

o sia stretto da un assurdo assedio.

Madri feroci, che vi hanno detto:

Sopravvivete! Pensate a voi!

Non provate mai pietà o rispetto

per nessuno, covate nel petto

la vostra integrità di avvoltoi!

Ecco, vili, mediocri, servi,

feroci, le vostre povere madri!

Che non hanno vergogna a sapervi

– nel vostro odio – addirittura superbi,

se non è questa che una valle di lacrime.

È così che vi appartiene questo mondo:

fatti fratelli nelle opposte passioni,

o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo

a essere diversi: a rispondere
del selvaggio dolore di essere uomini.

Pier Paolo Pasolini, Tutte le poesie - Garzanti 1993

mercoledì 13 agosto 2008

Murales (Trappeto - PA)

Permette che mi presenti: Mr. Pollo (Armando Massarenti)

Leggendo lo scoppiettante libro sull’infinito dello scrittore americano David Foster Fallace (Tuttom e di più) ci si imbatte in una bella versione del celeberrimo “tacchino induttivista” di Popper e di Russel, dove al posto del tacchino c’è il pollo.
“C’erano quattro polli in una stia di fildiferro e il più intelligente si chiamava Mr. Pollo. Tutte le mattine, quando il bracciante della fattoria arrivava nella stia con un certo sacco di iuta, Mr. Pollo iniziava ad agitarsi e a dare delle beccate di riscaldamento per terra, perché sapeva che era ora di mangiare. La cosa avveniva tutte le mattine intorno alla stessa ora t e Mr. Pollo aveva capito che t (uomo + sacco) = cibo, e così stava dando tutto fiducioso le sue beccate di riscaldamento anche in quell’ultima domenica mattina in cui il bracciante all’improvviso allungò una mano, prese Mr. Pollo, gli tirò il collo con un unico movimento elegante, lo ficcò nel sacco di iuta e se lo portò in cucina”.
“I ricordi di questo tipo” aggiunse lo scrittore americano “tendono a restare ben vividi nella memoria, se vi capita di averne. A maggior ragione perché, secondo il principio di induzione, Mr. Pollo sembrerebbe aver avuto ragione a non aspettarsi altro che la colazione da quella (n + 1) apparizione di uomo + sacco al momento t. La cosa inquietante e davvero fastidiosa è che Mr. Pollo non solo non sospettasse di nulla, ma sembri essere stato perfettamente giustificato nel suo non sospettare nulla”.
Morale (provvisoria): non tutte le nostre giustificazioni sono giustificate. Neppure la più banale, anzi fondamentale, senza la quale non potremmo più vivere: quella cioè che ci fa pensare che le regolarità che osserviamo nella vita di ogni giorno debbano ripetersi anche in futuro. E’ una fiducia di cui non possiamo fare a meno, altrimenti la vita quotidiana diventerebbe un incubo, ma che nello stesso tempo ci rende sorprendentemente simili a Mr. Pollo.

Armando Massarenti – da: “Il lancio del nano e altri esercizi di filosofia minima” – Ed. Il Sole 24 Ore

domenica 3 agosto 2008

Intervista a Enrico Berlinguer di Eugenio Scalfari fatta nel 1981

La passione è finita?

Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l'iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un "boss" e dei "sotto-boss". La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...

Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana.

È quello che io penso.

Per quale motivo?

I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali. Per esempio, oggi c'è il pericolo che il maggior quotidiano italiano, il Corriere della Sera, cada in mano di questo o quel partito o di una sua corrente, ma noi impediremo che un grande organo di stampa come il Corriere faccia una così brutta fine. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le "operazioni" che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell'interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un'autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un'attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti.

Lei fa un quadro della realtà italiana da far accapponare la pelle.

E secondo lei non corrisponde alla situazione?

Debbo riconoscere, signor Segretario, che in gran parte è un quadro realistico. Ma vorrei chiederle: se gli italiani sopportano questo stato di cose è segno che lo accettano o che non se ne accorgono. Altrimenti voi avreste conquistato la guida del paese da un pezzo.

La domanda è complessa. Mi consentirà di risponderle ordinatamente. Anzitutto: molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel '74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell'81 per l'aborto, gli italiani hanno fornito l'immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane.

Veniamo all'altra mia domanda, se permette, signor Segretario: dovreste aver vinto da un pezzo, se le cose stanno come lei descrive.

In un certo senso, al contrario, può apparire persino straordinario che un partito come il nostro, che va così decisamente contro l'andazzo corrente, conservi tanti consensi e persino li accresca. Ma io credo di sapere a che cosa lei pensa: poiché noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri, lei pensa che gli italiani abbiano timore di questa diversità.

Sì, è così, penso proprio a questa vostra conclamata diversità. A volte ne parlate come se foste dei marziani, oppure dei missionari in terra d'infedeli: e la gente diffida. Vuole spiegarmi con chiarezza in che consiste la vostra diversità? C'è da averne paura?

Qualcuno, sì, ha ragione di temerne, e lei capisce subito chi intendo. Per una risposta chiara alla sua domanda, elencherò per punti molto semplici in che consiste il nostro essere diversi, così spero non ci sarà più margine all'equivoco. Dunque: primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l'operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità. Le sembra che debba incutere tanta paura agli italiani?

Veniamo alla seconda diversità.

Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.

Onorevole Berlinguer, queste cose le dicono tutti.

Già, ma nessuno dei partiti governativi le fa. Noi comunisti abbiamo sessant'anni di storia alle spalle e abbiamo dimostrato di perseguirle e di farle sul serio. In galera con gli operai ci siamo stati noi; sui monti con i partigiani ci siamo stati noi; nelle borgate con i disoccupati ci siamo stati noi; con le donne, con il proletariato emarginato, con i giovani ci siamo stati noi; alla direzione di certi comuni, di certe regioni, amministrate con onestà, ci siamo stati noi.

Non voi soltanto.

È vero, ma noi soprattutto. E passiamo al terzo punto di diversità. Noi pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza. Non vogliamo seguire i modelli di socialismo che si sono finora realizzati, rifiutiamo una rigida e centralizzata pianificazione dell'economia, pensiamo che il mercato possa mantenere una funzione essenziale, che l'iniziativa individuale sia insostituibile, che l'impresa privata abbia un suo spazio e conservi un suo ruolo importante. Ma siamo convinti che tutte queste realtà, dentro le forme capitalistiche -e soprattutto, oggi, sotto la cappa di piombo del sistema imperniato sulla DC- non funzionano più, e che quindi si possa e si debba discutere in qual modo superare il capitalismo inteso come meccanismo, come sistema, giacché esso, oggi, sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui, al fondo, la causa non solo dell'attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione. È un delitto avere queste idee?

Non trovo grandi differenze rispetto a quanto può pensare un convinto socialdemocratico europeo. Però a lei sembra un'offesa essere paragonato ad un socialdemocratico.

Bè, una differenza sostanziale esiste. La socialdemocrazia (parlo di quella seria, s'intende) si è sempre molto preoccupata degli operai, dei lavoratori sindacalmente organizzati e poco o nulla degli emarginati, dei sottoproletari, delle donne. Infatti, ora che si sono esauriti gli antichi margini di uno sviluppo capitalistico che consentivano una politica socialdemocratica, ora che i problemi che io prima ricordavo sono scoppiati in tutto l'occidente capitalistico, vi sono segni di crisi anche nella socialdemocrazia tedesca e nel laburismo inglese, proprio perché i partiti socialdemocratici si trovano di fronte a realtà per essi finora ignote o da essi ignorate.

Dunque, siete un partito socialista serio...

...nel senso che vogliamo costruire sul serio il socialismo...

Le dispiace, la preoccupa che il PSI lanci segnali verso strati borghesi della società?

No, non mi preoccupa. Ceti medi, borghesia produttiva sono strati importanti del paese e i loro interessi politici ed economici, quando sono legittimi, devono essere adeguatamente difesi e rappresentati. Anche noi lo facciamo. Se questi gruppi sociali trasferiscono una parte dei loro voti verso i partiti laici e verso il PSI, abbandonando la tradizionale tutela democristiana, non c'è che da esserne soddisfatti: ma a una condizione. La condizione è che, con questi nuovi voti, il PSI e i partiti laici dimostrino di saper fare una politica e di attuare un programma che davvero siano di effettivo e profondo mutamento rispetto al passato e rispetto al presente. Se invece si trattasse di un semplice trasferimento di clientele per consolidare, sotto nuove etichette, i vecchi e attuali rapporti tra partiti e Stato, partiti e governo, partiti e società, con i deleteri modi di governare e di amministrare che ne conseguono, allora non vedo di che cosa dovremmo dirci soddisfatti noi e il paese.

Secondo lei, quel mutamento di metodi e di politica c'è o no?

Francamente, no. Lei forse lo vede? La gente se ne accorge? Vada in giro per la Sicilia, ad esempio: vedrà che in gran parte c'è stato un trasferimento di clientele. Non voglio affermare che sempre e dovunque sia così. Ma affermo che socialisti e socialdemocratici non hanno finora dato alcun segno di voler iniziare quella riforma del rapporto tra partiti e istituzioni -che poi non è altro che un corretto ripristino del dettato costituzionale- senza la quale non può cominciare alcun rinnovamento e sanza la quale la questione morale resterà del tutto insoluta.

Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?

La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell'amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell'Italia d'oggi, fa tutt'uno con l'occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt'uno con la guerra per bande, fa tutt'uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semmplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono profare d'essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. [...] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; rischia di soffocare in una palude.

Signor Segretario, in tutto il mondo occidentale si è d'accordo sul fatto che il nemico principale da battere in questo momento sia l'inflazione, e difatti le politiche economiche di tutti i paesi industrializzati puntano a realizzare quell'obiettivo. È anche lei del medesimo parere?

Risponderò nello stesso modo di Mitterand: il principale malanno delle società occidentali è la disoccupazione. I due mali non vanno visti separatamente. L'inflazione è -se vogliamo- l'altro rovescio della medaglia. Bisogna impegnarsi a fondo contro l'una e contro l'altra. Guai a dissociare questa battaglia, guai a pensare, per esempio, che pur di domare l'inflazione si debba pagare il prezzo d'una recessione massiccia e d'una disoccupazione, come già in larga misura sta avvenendo. Ci ritroveremmo tutti in mezzo ad una catastrofe sociale di proporzioni impensabili.

Il PCI, agli inizi del 1977, lanciò la linea dell' "austerità". Non mi pare che il suo appello sia stato accolto con favore dalla classe operaia, dai lavoratori, dagli stessi militanti del partito...

Noi sostenemmo che il consumismo individuale esasperato produce non solo dissipazione di ricchezza e storture produttive, ma anche insoddisfazione, smarrimento, infelicità e che, comunque, la situazione economica dei paesi industializzati -di fronte all'aggravamento del divario, al loro interno, tra zone sviluppate e zone arretrate, e di fronte al risveglio e all'avanzata dei popoli dei paesi ex-coloniali e della loro indipendenza- non consentiva più di assicurare uno sviluppo economico e sociale conservando la "civiltà dei consumi", con tutti i guasti, anche morali, che sono intrinseci ad essa. La diffusione della droga, per esempio, tra i giovani è uno dei segni più gravi di tutto ciò e nessuno se ne dà realmente carico. Ma dicevamo dell'austerità. Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro. Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell'economia, ma che l'insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l'avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani). Questo fu il nostro modo di porre il problema dell'austerità e della contemporanea lotta all'inflazione e alla recessione, cioè alla disoccupazione. Precisammo e sviluppammo queste posizioni al nostro XV Congresso del marzo 1979: non fummo ascoltati.

E il costo del lavoro? Le sembra un tema da dimenticare?

Il costo del lavoro va anch'esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell'aumento della produttività. Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli -come al solito- ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l'operazione non può riuscire.


Eugenio Scalari «La Repubblica», 28 luglio 1981