venerdì 25 luglio 2008

Scritti sempreverdi

L'artista è il creatore di cose belle. Rivelare l'arte e nascondere l'artista è il fine dell'arte. Il critico è colui che può tradurre in diversa forma o in nuova sostanza la sua impressione delle cose belle. Tanto le più elevate quanto le più infime forme di critica sono una sorta di autobiografia. Coloro che scorgono brutti significati nelle cose belle sono corrotti senza essere affascinanti. Questo è un errore. Coloro che scorgono bei significati nelle cose belle sono le persone colte. Per loro c'è speranza. Essi sono gli eletti: per loro le cose belle significano solo bellezza. Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o scritti male. Questo è tutto. L'avversione del diciannovesimo secolo per il realismo è la rabbia di Calibano che vede il proprio volto riflesso nello specchio. L'avversione del diciannovesimo secolo per il romanticismo è la rabbia di Calibano che non vede il proprio volto riflesso nello specchio. La vita morale dell'uomo è parte della materia dell'artista, ma la moralità dell'arte consiste nell'uso perfetto di un mezzo imperfetto. L'artista non desidera dimostrare nulla. Persino le cose vere possono essere dimostrate. Nessun artista ha intenti morali. In un artista un intento morale è un imperdonabile manierismo stilistico. Nessun artista è mai morboso. L'artista può esprimere qualsiasi cosa. Il pensiero e il linguaggio sono per un artista strumenti di un'arte. Il vizio e la virtù sono per un artista materiali di un'arte. Dal punto di vista formale il modello di tutte le arti è l'arte del musicista. Dal punto di vista del sentimento il modello è l'arte dell'attore. Ogni arte è insieme superficie e simbolo. Coloro che scendono sotto la superficie lo fanno a loro rischio. L'arte rispecchia lo spettatore, non la vita. La diversità di opinioni intorno a un'opera d'arte dimostra che l'opera è nuova, complessa e vitale. Possiamo perdonare a un uomo l'aver fatto una cosa utile se non l'ammira. L'unica scusa per aver fatto una cosa inutile è di ammirarla intensamente. Tutta l'arte è completamente inutile.

OSCAR WILDE (Prefazione al romanzo “Il Ritratto di Dorian Gray”)

E del popolo birmano?

lunedì 21 luglio 2008

Ma il dolore non ha una bandiera

Cara Oriana, ho sempre ammirato la tua sincerità, il tuo coraggio. Sono stata contenta di vedere di nuovo la tua firma sul Corriere : finalmente Oriana Fallaci torna a battagliare come è nel suo carattere, mi sono detta. Bentornata in Italia! Leggendo il tuo lungo e appassionato articolo però devo dirti che l’ammirazione per il tuo coraggio si è trasformata presto in allarme per la tua incoscienza. Proprio nel momento in cui tutti, dal Papa al presidente degli Stati Uniti, cercano di distinguere fra cultura islamica e terrorismo, proprio in questa circostanza così delicata e grave per il futuro del mondo, tu te la prendi con chi non è pronto a buttarsi in una guerra di religione. Per te chi distingue fra terrorismo e Islam è un ipocrita, un «fottuto» intellettuale, meschino e spocchioso. Con questo criterio anche il Papa sarebbe un ipocrita e che dire del presidente Bush, che altrove esalti con tanta commozione? Subito dopo l’eccidio Bush è andato a visitare una moschea, l’avrai visto anche tu. Cos’è, anche lui un politico che tu metti fra i farisei e gli impostori? «Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite e non volete capire che qui è in atto una guerra di religione»... tu scrivi con invidiabile piglio militaresco. «Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio ma alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci. Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà...». E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po’ più intelligente, cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri...». Oriana, lo so, non ti si può chiedere di ragionare con calma, ma santo iddio, ferma un momento la tua furia e guardati intorno. Proprio New York in cui hai scelto di vivere, è la città più multietnica che esista al mondo. Nei grattacieli, lo sai, sono morti 400 musulmani. Schiacciati, soffocati o bruciati vivi, per mano di alcuni criminali. I primi a fare le spese del fanatismo religioso sono stati proprio loro, i figli di Allah: le tante ragazze sgozzate in Algeria per la semplice ragione che frequentavano una scuola, i tanti contadini che avevano la sola colpa di coltivare la terra e pretendere di vendere i loro prodotti in un mercato misto; le tante donne che in Afghanistan sono state lapidate perché scoperte a camminare con un burqa non abbastanza lungo o non abbastanza fitto davanti agli occhi. Non sono stati gli islamici in generale a fare l’eccidio, come non sono stati gli italiani in generale a buttare la bomba alla Banca dell’Agricoltura di Milano o alla stazione di Bologna, ma persone con nome e cognome. E sono queste persone che vanno scoperte e processate e condannate, come si è fatto dopo il nazismo con il processo di Norimberga. La guerra non è una risposta congrua contro il terrorismo, ma quello che servirebbe semmai è una grande operazione di polizia internazionale. Certamente molti hanno risposto alle tue veementi parole, perché con la tua passione hai toccato un punto nevralgico, una memoria dolorosa: la paura dell’Islam ha radici lontane. C’è ancora un’eco in noi che suona con voce infantile: mamma li turchi! «Quando è in ballo il destino dell’Occidente» tu scrivi, «la sopravvivenza della nostra civiltà va salvaguardata»! Non ti sembra di esagerare? «Se crolla l’America crolla l’Europa, crolla l’Occidente, crolliamo noi. ... E al posto delle campane, ci troviamo il muezzin, al posto delle minigonne ci ritroviamo il chador, al posto del cognacchino il latte di cammella». È un allarmismo il tuo che capisco provenga da dolorose esperienze di inviata di guerra, ma finisce per resuscitare antichi odii e ancora più antiche paure assolutamente fuorvianti per riconoscere e colpire i reali colpevoli di questa strage. Non puoi dire che in Italia «le moschee di Milano e di Torino e di Roma traboccano di mascalzoni che inneggiano a Usama Bin Laden, di terroristi in attesa di fare saltare in aria la Cupola di San Pietro», perché non è vero. Proprio in questi giorni a Palermo, a Napoli ci sono state delle manifestazioni di arabi e di italiani per ricordare i morti uccisi dal terrorismo a Manhattan. Non puoi criminalizzare tante persone che lavorano, pregano e portano avanti con dignità una difficile vita di esilio. «Mi spieghi signor cavaliere, sono così incapaci i suoi poliziotti e carabinieri? Sono così coglioni i suoi servizi segreti? Sono così scemi i suoi funzionari?» insisti tu con aria da inquisitrice. «Oppure a fare le indagini giuste, a individuare e arrestare chi finoggi non avete individuato e arrestato, lei teme di subire il solito ricatto razzista-razzista?». Ma Oriana, se proprio il Paese che tu porti ad esempio non è stato capace di prevenire quell’orrore, perché pensi che avrebbe dovuto farlo il nostro? Il terrorismo è vile, vive di finzioni, si mimetizza, finge, inganna, si insinua, approfitta della buona fede e della libertà, che come giustamente dici, sono le grandi conquiste dei Paesi non dominati da una teocrazia. A me sembra che proprio l’enormità del progetto abbia impedito di vederlo e prevenirlo. L’idea di trasformare dei pacifici aerei di linea in micidiali ordigni di morte per migliaia di innocenti era difficile da immaginare. Gli anarchici che uccidevano un re o un capo di Stato sembrano, a guardarli oggi, dei bambini intenti a giocare coi soldatini. Eppure anche loro hanno cambiato il corso della storia. Ma gli anarchici si rivolgevano ad una persona precisa, che ritenevano colpevole di qualcosa di grave (assassinii, torture, abusi di potere, ecc.) mentre qui, in pieno periodo di pace, con l’inganno più sfrontato e imprevedibile, si è infierito contro degli innocenti assolutamente ignari del pericolo che incombeva su di loro. Uno sterminio di massa portato a termine con tanta sfrontatezza e tanta mostruosa gelata insensibilità è fuori da ogni previsione. Masochisti tu dici «siamo masochisti perché, vogliamo farlo questo discorso sul contrasto fra le due culture?». E qui con foga impaziente sostieni che non vuoi nemmeno sentire parlare di due culture, perché le si metterebbero sullo stesso piano «come fossero due realtà parallele». E parti come un ciclone a fare quello che chiunque abbia una briciola di buon senso ti direbbe non si può fare: una comparazione fra civiltà. Non c’è bisogno di avere studiato antropologia (un’arte squisitamente europea, figlia di una cultura illuminista, attenta verso l’altro, il diverso), per sapere che ogni confronto fra culture è insensato. In quanto la civiltà è in movimento, non ha niente di monolitico, sfugge al concetto di bene e di male. Ogni cultura, anche la più apparentemente primitiva, vive di valori, di regole, con una sua cosmogonia e una sua rete di relazioni e di beni affettivi che non possono essere disprezzate mai, per nessuna ragione. Non è inferiore un congolese perché va scalzo a pescare i pesci con la lancia e muore di Aids a trent’anni. Qualcuno potrebbe raccontarci che una terra ricchissima, la sua, piena di diamanti e di rame, è stata devastata, sequestrata e rapinata da chi aveva soldi e fucili, lasciando quell’uomo all’età della pietra. Ogni essere umano fa parte di un sistema di conoscenze e di opinioni più o meno sfortunato, più o meno vincente, ma sempre degno di vivere dignitosamente nel rispetto altrui. C’è stato un periodo in cui la civiltà africana contava più di Roma e di Atene. Per non parlare dell’Islam, fra l’altro molto vicino a noi. «Siamo figli dello stesso Dio» ha detto umilmente papa Wojtyla. Per molti secoli l’Islam ha insegnato all’Europa come contare le stelle, come calcolare la distanza dei pianeti, come pensare e scrivere le operazioni matematiche. Le civiltà salgono e scendono, hanno momenti di prosperità e momenti di stasi e di povertà. Ma certamente è folle attribuire ai poveri la colpa di essere tali. Anche perché spesso, in nome della superiorità di razza e di un Dio severo, proprio chi si sentiva dalla parte del Bene e della Verità ha derubato, confiscato, schiavizzato chi considerava «ignorante e selvaggio». Lasciamo stare il discorso sulle civiltà. Dopo millenni di odii e di guerre per lo meno dovremmo avere imparato questo: che il dolore non ha bandiera. Che ciò a cui aspira la maggioranza delle persone è una convivenza pacifica fra individui di diversa cultura e diversa fede. Proprio le torri di Manhattan visibilmente ci dicono una cosa sacrosanta: che la civiltà oggi è fatta di un crogiolo di culture diverse. In quelle torri ferite a morte convivevano civilmente persone di quaranta nazionalità. L’America non sarebbe quella che è se non avesse accolto nel suo seno i neri d’Africa, i musulmani d’oriente, i cinesi, i giapponesi, gli irlandesi, eccetera. L’America che tu ami non ha avuto paura di perdere la sua identità (eppure qualcuno che non voleva riconoscere dignità ai lavoratori stranieri c’era anche allora, erano i Sudisti, e per conquistare la libertà di pensiero e di tolleranza è stata fatta una guerra civile sanguinosissima). È la migliore America quella che ha vinto, l’America dell’accoglienza e della solidarietà. Io stessa in questi giorni lo sto provando sulla mia pelle cosa vuol dire multietnicità. Mia nipote, figlia di mia sorella e di un conosciuto pittore marocchino, ha sposato un irlandese americano da cui ha avuto un bambino che in questi giorni è stato battezzato nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma. Il bambino, Fosco Gabriele, porta in sé il seme di civiltà diverse: da grande parlerà l’inglese, l’arabo, l’italiano e il francese. Non per questo la civiltà occidentale sarà messa in pericolo. Il fatto è che i Paesi ricchi e potenti possono permettersi delle libertà a cui i Paesi poveri spesso non hanno accesso: la libertà di parola, la libertà di pensiero, la libertà di istruzione, la libertà della democrazia e della ricerca scientifica e artistica. Sapere accogliere il diverso è una conquista, una forza, non una debolezza. Sono le nazioni che si sentono ai margini della storia, che hanno difficoltà di sopravvivenza, che affrontano il futuro con dolore e frustrazione a trovarsi impelagate nell’odio. Così come si odiano delle persone costrette a condividere una casa di trenta metri quadrati, che dispongono di una sola pagnotta per dieci bocche, che vedono morire i figli per malattie che altrove vengono curate e guarite. Essere ricchi e potenti non vuol dire automaticamente essere migliori. Ma certamente vuol dire avere più responsabilità. E mi sembra che in questo momento il Presidente Bush e i suoi consiglieri stiano dimostrando molta sensatezza nel distinguere, chiarire, prendere le distanze dall’odio appunto e dalla vendetta. Mi è sembrata anche ottima l’idea di andare a frugare nei conti di questi terroristi miliardari. È lì che si annidano le prove dell’orribile delitto pensato a freddo e commesso in nome di un Dio pazzo e crudele. Tu parli degli emigrati che approdano sulle nostre coste con sommo disprezzo quasi fossero loro i responsabili dell’eccidio: «Più che di una emigrazione si è trattato di una invasione condotta all’insegna della clandestinità. Io non dimenticherò mai i comizi in cui l’anno scorso i clandestini riempirono le piazze d’Italia per ottenere i permessi di soggiorno. Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi. Quelle voci irose che mi riportavano alla Teheran di Khomeini»... Strano, come ognuno veda quello che vuole vedere. Non so se guardando meglio, senza prevenzioni, avresti scorto quello che ho scorto io e tanti altri con me: la disperazione di chi aveva lasciato la casa e il paese per sfuggire ad una guerra feroce o per cercare un lavoro, anche il più umile, purché gli permettesse di sopravvivere. Certo in mezzo a loro sono scesi anche dei delinquenti, tali e quali a quelli di casa nostra. Ma guai a non distinguere i giusti dagli ingiusti! Si fa una grave offesa alla verità. Non puoi non vedere che la maggioranza degli emigrati sono povera gente che non sa dove sbattere la testa. E scappano, come scappano gli afghani in questi giorni, dalle loro case, per paura delle bombe e della miseria. Non riesco proprio a capire come tu possa dire, con tanta baldanza: «peggio per loro»! «Se in alcuni Paesi le donne sono così stupide da accettare il chador, peggio per loro. Se sono così scimunite da accettar di non andare a scuola, non andare dal dottore, non farsi fotografare eccetera, peggio per loro. Se sono così minchione da sposare uno stronzo che vuole quattro mogli, peggio per loro»! Eppure tu sai benissimo che quelle donne rischiano la vita solo nel mostrare una mano nuda. Non è una scelta la loro ma una orribile imposizione da dittatura militare... Io sono stata in Afghanistan molto prima dei talebani e ho conosciuto donne che facevano l’avvocato, l’insegnante e non erano nascoste e infagottate come fantasmi. Ma tu non distingui: «Usama Bin Laden afferma che l’intero pianeta Terra deve diventar musulmano, che dobbiamo convertirci all’Islam, che con le buone o le cattive lui ci convertirà che a tal scopo ci massacra e continuerà a massacrarci». Perché non chiamarlo invece per quello che è: un atto di terrorismo fondamentalista che come tale va giudicato e combattuto? Se lo trasformi nella prima mossa di una guerra santa, fai solo il loro gioco. È una trappola, Oriana, in cui mi sembra che tu sia caduta con tutti e due i piedi, spinta dall’impetuosità travolgente e il coraggio - se mi permetti in questo caso un poco donchisciottesco - che ti sono propri. In quanto ai kamikaze, tu dici di non avere pietà per loro. Ma non pensi che sia molto più spregevole e indegno di pietà chi li indottrina, chi li manda a morire, chi arriva a fargli credere che il loro corpo vale meno di una mina, meno di un fucile? Ho sentito una donna araba dire: però non mandano i propri figli a uccidere e morire: mandano i figli degli altri. Ecco chi è degno di disprezzo e di esecrazione: un gruppo di fanatici che trasforma degli esseri umani, dei ragazzini spesso adolescenti, in oggetti di morte e tutto per dimostrare il loro potere, la loro ideologia, la loro fede, il loro fanatismo. Ma quale Dio può essere tanto sanguinario e nemico dell’essere umano da chiedere tali sacrifici? Tu dici che la tua ira è esplosa quando hai saputo che in Italia, come in Palestina la gente ha gioito per l’attentato terroristico alle due torri di Manhattan. Sei stata male informata: posso garantirti che nessuno in Italia si è rallegrato per l’orribile scempio. Non si è vista una sola immagine di festa o di compiacimento, né in televisione né per strada né altrove. Quello che si è visto è stato solo stupore, paura, indignazione, orrore. Tutti abbiamo fissato lo sguardo su quell’obbrobrio, tutti abbiamo osservato impotenti, con le lagrime agli occhi, quei corpi che si sporgevano disperati lungo le pareti dei grattacieli, incerti se gettarsi di sotto o affrontare una morte per fuoco: bruciati vivi, innocenti e giovani. Una morte di massa che ha sconvolto le nostre immaginazioni e le nostre aspettative per il futuro. Ti ripeto che nessuno in Italia ha esultato. D’altronde in quelle torri c’erano centinaia di italiani. Che sono stati ridotti a pezzi e possiamo chiamare fortunati quelli che sono morti subito, perché alcuni hanno languito sotto le macerie provando disperatamente a telefonare a casa, - come dimenticare quelle voci che nell’orrore dello strazio mandavano coraggiosamente messaggi di amore ai propri cari? - ma come individuarli? come tirarli fuori? A volte noi cerchiamo di scrollarci di dosso il peso intollerabile delle sofferenze altrui. E chiudiamo gli occhi. Ma quando la morte diventa una rappresentazione in diretta, non puoi serrare le palpebre, non puoi voltare le spalle: sei coinvolto fino in fondo, muori un poco anche tu. E noi siamo tutti un poco morti, lanciandoci nel vuoto come quei poveri infelici che abbiamo visto agitarsi per tanti lunghissimi momenti, prima di sfracellarsi al suolo. «Il terrorismo è l’assassinio dell’innocente», scrive Salman Rushdie. Questa volta si è trattato di un assassinio di massa. «Giustificare una simile atrocità biasimando la politica degli Stati Uniti significa ricusare l’idea stessa della moralità: che gli individui siano responsabili delle loro azioni!». Il fondamentalista terrorista è contro la libertà di parola, contro il voto universale, contro gli stati democratici, contro i diritti delle donne, contro il pluralismo... «Ma questi sono tiranni non musulmani!». Non ti sembrano parole sagge? Fra l’altro l’Islam ha sempre avuto parole dure contro il suicidio, ci ricorda sempre Rushdie, «un gesto che il suicida è condannato a ripetere per tutta l’eternità». Bisognerebbe fare una analisi, suggerisce lo scrittore per capire come mai tanti fedeli siano attirati da questa forma di disobbedienza alle parole di Maometto. «Così come l’Occidente deve fare i conti con i suoi Unabomber, (con i suoi terroristi irlandesi o baschi), l’Islam dovrebbe fare i conti con i suoi Bin Laden», conclude Rushdie e mi sembrano parole precise e acute. La schizofrenia, il delirio di onnipotenza, l’uso perverso della tecnologia, l’accumulo maniacale del denaro, non sono indicativi né della religione cattolica né della religione musulmana, anche se alcuni individui affamati di successo e di potere hanno adoperato le due fedi per imporre le proprie ragioni di morte e di terrore. Trattiamoli come tali, processiamoli pubblicamente, ma evitiamo le guerre che colpiscono sempre e soprattutto gli innocenti. Un caro saluto da Dacia Maraini.

(Dacia Maraini - Corriere della Sera, venerdì 05 ottobre 2001)

sabato 19 luglio 2008

Carte Postale d'Italie

La criminalità non è il pote­re, ma uno dei poteri.

La dittatura di un uomo nei clan è sempre a breve termine, se il potere di un boss durasse a lungo farebbe levitare i prezzi, inizierebbe a monopolizzare i mercati irrigi­dendoli, investirebbe sempre negli stessi spazi di mercato non esplorandone di nuovi. Invece che divenire un valore aggiunto all'economia criminale diverrebbe ostacolo agli af­fari. E allora appena un boss raggiunge il potere, dopo poco emergeranno nuove figure pronte a prenderne il posto con la volontà di espandersi e camminare sulle spalle dei giganti che loro stessi hanno contribuito a creare. Lo ricordava sem­pre uno dei più attenti osservatori delle dinamiche di potere, il giornalista Riccardo Orioles: «La criminalità non è il pote­re, ma uno dei poteri». Non ci sarà mai un boss che vuole se­dere al governo. Se la camorra fosse tutto il potere non ci sa­rebbe il suo business che risulta essenziale nel meccanismo dello scalino legale e illegale. In questo senso ogni arresto, ogni maxiprocesso, sembra piuttosto un modo per avvicen­dare capi, per interrompere fasi, piuttosto che un'azione ca­pace di distruggere un sistema di cose.

Da «Gomorra» di Roberto Saviano - Ed. 2006 - Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Panorami

giovedì 17 luglio 2008

I Giudei di Gerusalemme

“La sua guerra più dura fu contro i filistei. Questa è la guerra contro cui devono misurarsi tutti i figli della luce. Il filisteismo era la nota tipica dell’epoca e della comunità nella quale egli viveva. Nella loro tetra inaccessibilità alle idee, nella loro opaca rispettabilità, nella loro tediosa ortodossia, l’adorazione del volgare successo, la preoccupazione esclusiva del lato grossolanamente materialistico della vita e nella loro ridicola stima di se stessi e della propria importanza, i giudei di Gerusalemme al tempo di Cristo erano l’esatta controparte dei filistei britannici del nostro tempo. Cristo scherniva i “sepolcri imbiancati” della rispettabilità, e la frase rimase così fissata, per sempre. Considerava il successo mondano con il disprezzo più completo; non ci trovava assolutamente nulla. Egli considerava la ricchezza un impedimento per l’uomo. Non voleva saperne della vita sacrificata a un qualsivoglia sistema di pensiero o di morale. Fece notare che le convenzioni e le cerimonie erano fatte per l’uomo, non l’uomo per le convenzioni e le cerimonie. Prese il culto del sabato a modello delle cose che non si dovevano fare. Espose con implacabile e totale disprezzo i freddi atti filantropici, le ostentate opere di carità pubbliche, i tediosi formalismi tanto cari alla mentalità della classe media. Per noi ciò che viene chiamata ortodossia è semplicemente una facile, ottusa acquiescenza, ma per loro e nelle loro mani fu una tirannia terribile e paralizzante. Cristo la spazzò via. Mostrò che soltanto lo spirito contava. Si prese il sottile piacere di far notare loro che, sebbene stessero sempre a leggere la Legge e i Profeti, in realtà non avevano la minima idea di quello che volessero dire. Opponendosi alla loro consuetudine di frazionare ogni singola giornata in una routine fissa di doveri stabiliti, come frazionavano la menta e la ruta, egli predicò l’enorme importanza di vivere in modo completo in ogni momento.”
Tratto dalla lettera scritta da Oscar Wilde nel 1897 (De Profundis), durante la prigionia nel carcere di Reading.

L'albero di Natale

venerdì 11 luglio 2008

Simbolismo: maggiore o minore di, ovvero ">" "<"


Quando andavo a scuola c'era un compagno che confondeva sistematicamente i simboli maggiore e minore (> <), quindi in tutte le questioni che implicavano l'utilizzo di tali segni incorreva in errori concettuali sostanziali. Un giorno l'eccellente e mitico professore di ragioneria (Antonio Billeci) per eliminare alla radice il problema improvvisò una spiegazione per tutta la classe, che a distanza di oltre quaranta anni ricordo ancora. Disse: "i simboli di maggiore e di minore devono intendersi come le gambe di una puttana, perchè si aprono sempre verso chi offre di più". Da quel giorno nessuno in quella classe sbagliò più nell'utilizzo del concetto matematico di ">" e "<".

giovedì 10 luglio 2008

Quando i fili della corrente erano scoperti (Piana degli Albanesi)

GAFFE USA: fonte enciclopedica da cui è stato tratto il "kit stampa" della Casa Bianca

Encyclopedia of World Biography | Date: 2005

Silvio Berlusconi

Italian Prime Minister Silvio Berlusconi (born 1936) is one of the most controversial leaders in the history of a country known for governmental corruption and vice. Primarily a businessman with massive holdings and influence in international media, he is regarded by many as a political dilettante who gained his high office only through use of his considerable influence on the national media.

Hated by many but respected by all at least for his bella figura (personal style) and the sheer force of his will, Berlusconi has parlayed his business acumen and influence into a personal empire that has resulted in Italy's longest–running government ever and in his becoming the country's wealthiest man. Bursting onto the scene with no political experience in 1993, he campaigned—using his vast network of media holdings—on a promise to purge the notoriously lackadaisical Italian government of corruption. He won appointment to the office of prime minister in 1994. However, he and his fellow Forza Italia Party leaders soon found themselves accused of the very corruption he had vowed to eradicate. Charges of bribery, extortion, and other abuses of power trailed the leader until he was forced to resign later in 1994. Despite convictions on a number of corruption charges that were later overturned, the suave Berlusconi was again elected prime minister in 2001, and remained in that post as of late 2004. He is owner of one of the world's most valuable soccer franchises, the country's biggest private television network, a publishing conglomerate, assorted department stores and insurance companies, a newspaper, a magazine, and a bank. His personal monetary worth is estimated at U.S. $10 billion.

Entrepreneurial Streak Apparent Early On

Berlusconi was born on September 29, 1936, in Milan, Italy, the first of two sons of a middle–class bank clerk and a housewife. His precocious interest in business matters was matched by his passion for making money, and even as a boy he was already earning an income by organizing puppet shows for which he would then charge admission. While studying law at the University of Milan, Berlusconi sold vacuum cleaners, worked as a singer on a cruise ship, took portrait photographs, and did other students' homework for a fee. He also formed an important friendship with Bettino Craxi, who would later become Italian prime minister. His graduation thesis from law school was titled, "The Newspaper Advertising Contract."
As soon as he left school, Berlusconi began working in real estate because he sensed the development boom that was coming in response to the post–war prosperity of the 1960s. Declining his father's offer of a job at his bank, the young man managed to put together enough loans to found two real estate and development companies: Cantieri Reuniti Milanesi in 1962 and Edilnord in 1963. Edilnord won the contract for the development of Milano Two, an attractive suburb north of Milan for the upper class, in 1969, and in 1974 Berlusconi entered the world of media when he decided to install a cable television network (through his new Telemilano company) to service the fashionable bedroom community. Edilnord developed the chic Milano 3 suburb in 1976, having become the top developer of residential and commercial properties by that point.

Became Media Mogul in 1970s and 1980s

Following the Constitutional Court's 1976 ruling that the Radio Televisone Italiana (RAI) conglomerate could no longer extend to the local level its legal monopoly over national broadcasting, Berlusconi launched a massive effort to capitalize on the legitimization of "pirate" television station operators. He founded a holding company, Fininvest, to manage his expanding portfolio of interests as 700 commercial stations mushroomed virtually overnight. Berlusconi worked quickly to create a major library of films, and then rented them out to the new stations in exchange for their advertising on his new Pubitalia publishing subsidiary. By 1980, he was the dominant force in a skyrocketing television market that over the next five years increased its share of national advertising from 15 to 50 percent.
In the meantime, Berlusconi began stringing together a nationwide communications network, Canale Five, in 1977 and completed it in 1980. He created the illusion of a single channel that people could tune into by sending the same film by courier to many of the independent television stations. The pirate stations would then transmit the show simultaneously to their viewers. Unabashedly appealing to the mass market, he stockpiled foreign game shows, soap operas, and popular movies to lure viewers away from the stodgy government–run channels. Berlusconi's position as a media baron was strengthened when the courts reversed their earlier decision and legalized private national networks as long as anti–trust provisions were observed. He bought out two of his closest competitors in 1982 and 1984, cementing his domination of the country's commercial television market. Meanwhile, the reach of Berlusconi's media empire had extended to commercial television in France, where he created La Cinq in 1986; in Germany, where he founded Telefunf in 1987; and in Spain, where he established Telecinco in 1989.
When the courts ruled later in 1984 that Canele Five had usurped RAI's state–sanctioned right to broadcast a national service simultaneously, Berlusconi summoned his old friend Craxi, who had since become prime minister, to reverse the order. Thus benefiting from a general move toward deregulation, Berlusconi was permitted to maintain a virtual duopoly with RAI over the nation's television market. For the remainder of the 1980s, he continued to acquire more and more media holdings.
One of Berlusconi's key purchases during this period was of the Milan AC Soccer Club in 1986. A passionate soccer fan, he poured money into the club until it soon became the most successful Italian soccer team ever. (With him as chairperson, the team has since won the Champion's League title four times, the National League title seven times, and the World Cup Championship twice). He also bought the popular Standa department store chain in 1988 and, after a gigantic legal tussle, the Arnoldo Mondadori Editore S.P.A. magazine, book, and newspaper publishing group in 1990. The latter purchase gave Berlusconi instant control over 20 percent of the Italian publishing market. His relentless acquisitions also exponentially increased Fininvest's debt load to dangerous levels, but Berlusconi had already become a billionaire.

Launched Political Career

At this point, Berlusconi found himself increasingly hounded by demands from all quarters that he break up his media empire for violating virtually every anti–trust law in the books. As these pressures increased through the first part of the 1990s, he made a decision that some saw as foolish but that others perceived as an effort to grab the power of the very forces opposed to him: he announced that he would run for prime minister. In typical aggressive fashion, Berlusconi handed over to close friends all his positions at Fininvest and other companies to avoid political conflicts of interest and immediately organized a political coalition named Forza Italia (after the ubiquitous soccer chant meaning "Go Italy"). He appointed himself as its leader.
Allying the new grouping with a federalist party and the remains of a disbanded neo–fascist group, he geared up his media companies to begin a television and print blitz to advertise his candidacy. Several editors of his press concerns resigned in protest at being told whom to endorse in the typically free–for–all run–up to elections. Berlosconi pressed on, portraying himself as honest and in touch with the concerns of young Italians while pledging to eradicate corruption, lower taxes, increase personal choice, and promote free–market economics. In 1992, a national poll revealed that Italian teenagers ranked Berlusconi ahead of Jesus Christ and the Italian president when asked about the ten people they admired most. However, disaster struck when the leader of the fascist group praised deceased Italian dictator Benito Mussolini as the century's finest statesman. It was a testament to the power of Berlusconi's personality that he was quickly able to smooth over the outrage that instantly arose over the comment about the hated leader.
Berlusconi held up his lack of political experience as a virtue to voters, telling them that his success as a businessman was excellent preparation for him to transform the bloated, inefficient Italian government into a lean, streamlined machine that would work for the people and provide a fresh start for all, with sweeping tax cuts and millions of new jobs. The media (much of which he ran, of course) quickly dubbed Berlusconi "the Knight." Support for him built rapidly despite virulent attacks by his detractors. The media and Berlusconi's own personal flair prevailed, and the Freedom Pole won 43 percent of the popular vote in March 1994 elections—enough to enable him to form a government of which he was appointed prime minister. However, despite his precautions, allegations of conflicts of interest arose quickly, fueled by the fact that Berlusconi and his family had retained 51 percent of Fininvest's interests. Coupled with these suspicions, when one of the coalition's parties bailed out of the union, Berlusconi's government collapsed after only nine months in power. In the meantime, his carefully cultivated image as a politician who was above the nation's traditional corruption began to crumble when it was revealed that Berlusconi had in 1978 joined the sinister Propaganda Two group. This was a secret Masonic lodge that had created a powerful state within a state with strong influence on the secret police, banks, the government, and the military.
Undaunted by these obstacles, Berlusconi began selling off more and more of his shares in his wide array of holdings, and in 1996—just two days before the April general election—he officially declared that he no longer had a majority control in any business. His past continued to haunt him, however, with further allegations of corruption and misdeeds, and although he succeeded in being elected as a member of Parliament representing his right–wing coalition, he was forced to abandon his bid for the premiership.

Appointed Premier Again Despite Lingering Charges

As charges of misdeeds continued to pile up, Berlusconi alleged that left–wing politicians had mounted a plot against him. He was convicted of several financial crimes related to accounting and illegal political funding in 1997 and 1998. He managed to have these overturned on appeal, but those charges were followed by allegations of bribery and other misdeeds in 1999. Nevertheless, he was reelected as a member of the European Union Parliament in 1999 and remained opposition leader in his own country's Parliament until 2001, when he was once again appointed prime minister on May 13. Berlusconi and his House of Freedoms coalition had won the popular vote by 18.5 million votes, propelled once again by his image as a forceful, self–made man who would at last straighten out the Italian government. Nevertheless, plenty of people were outraged by Berlusconi's second rise to power, and in 2002 hundreds of thousands of them staged a massive protest to drive home their point—that his heavy involvement in the world of business made him incapable of being an impartial and fair national leader.
The government was shaken to its core later in 2002 when a mammoth corruption scandal came to light that involved some 6,000 politicians and business leaders, including Berlusconi's brother Paolo and his friend Craxi, and billions of dollars in graft. Meanwhile, Berlusconi himself served as foreign minister in addition to his role as prime minister for ten months in 2002.
Berlusconi got a reprieve from the courts in 2003 when Parliament passed a controversial law making the government's top officials, including the prime minister, immune from prosecution. It looked for a while like the legal challenges to his leadership were behind him, but the Constitutional Court soon overturned the law. Meanwhile, Berlusconi's firm decision to stand as an ally with the United States in the war in Iraq had become extremely unpopular, and by 2003, a full 75 percent of Italians were opposed to his decision. In July 2003, Berlusconi assumed the rotating six–month presidency of the European Union, using that position to urge other European countries to support the United States in the war.
By 2004, Berlusconi and his government had enacted numerous bills and laws aimed at reforming the nation's school and labor systems, reduced taxes and other financial burdens on citizens, increased government support of the unemployed, elderly, and disabled, and, not surprisingly, loosened regulations on limits of private ownership of media. However, critics from both Italy and elsewhere warned that Berlusconi's liberal spending could soon have major negative impacts on the country's long–term economic outlook. Nevertheless, the prime minister now had the honor of heading Italy's longest–running government ever.
In 2004, Forbes magazine ranked Berlusconi as the 30th wealthiest man in the world, up from 45th in 2002, and estimated his personal fortune at $10 billion. He has been married twice, first to Carla Dall'Ogglio, with whom he had two children, and then to actress Veronica Lario, with whom he has three children. He released a CD in 2003 of Neopolitan love songs. The prime minister prefers to spend his spare time at his 70–room villa in Sardinia named "Arcore," whose amenities include a private park, a movie theater, and walls of large–
screen televisions.

http://www.encyclopedia.com/doc/1G2-3446400032.html

Montalbano Elicona (il castello)

Politichese: no grazie!

Ciao a tutti, con piacere scrivo questo mio post su iMille. Io mi sono impegnato a parlarvi un po' di comunicazione e giornalismo ... argomenti che, sono sicuro, servono molto al PD.
Non aspettatevi nulla da me ... ho solo 15 anni ma spero di andare oltre il classico ragazzino politicizzato. Anzi ... spero di non essere affatto politicizzato in modo da poter fare un' analisi comunicativa dall'esterno: dalla base. Vi dico subito: non ho praticamente mai partecipato a circoli territoriali o cose del genere quindi sono assolutamente incolume da tutto questo (anche se le poche volte con cui ci ho avuto a che fare mi hanno fatto capire di che si tratta...). E se credete che parlare di comunicazione sia una perdita di tempo vi ricordo che tra pochi mesi ci saranno le europee e se si va avanti così, si finisce per perdere pure quelle.
Dunque: partiamo dal presupposto che Berlusconi ha un palazzone all'EUR chiamato Motore Azzurro. Lì si lavora solo per preparare le prossime campagne elettorali e tenere sotto controllo ogni singola mossa del presidente affinché sia perfettamente compatibile con le risposte dei sondaggi e le ricerche di mercato.
Ma noi dobbiamo combattere sui contenuti ... che ce frega a noi della customer satisfaction. Giusto? Non è questo ciò che si dice se si ha un partito e non si è i più ricchi d'Italia? Ebbene: se dobbiamo lavorare sui contenuti lavoriamoci ... parliamo ... facciamoci sentire! Quello che invece sento ai telegiornali & C. In questo periodo è un silenzio totale da parte del PD. Ma non perché non viene dato lo spazio: persino al TG3 o al TG La7 non si sente un PD vivo. Questo, all'occhio della gente è un partito morto. Non so se avete notato ma piano piano...legge dopo legge Silvio ci sta facendo passare tutto. E noi quasi quasi siamo lì per approvare pure noi.
Ma ve la ricordavate Forza Italia diciamo ... un anno fa? Non c'era volta che non si vedeva qualcuno dire "Il governo è morto ... nessuno lo vuole ecc.". I giornali vicini al PDL continuavano a pubblicare vignette volgari ma di effetto con Prodi morto e roba del genere. Noi oggi invece che facciamo? Parliamo ancora dei massimi sistemi. Filosofeggiamo. Prendiamo un esempio. Il sito del PD che per la campagna elettorale si era acceso, aveva guadagnato moltissimi accessi e, spero, anche molti voti ora sembra inesistente, vecchio, mai aggiornato. Lasciando stare i problemi comunicativi del rappresentante dei democratici, che comunque analizzerò nei prossimi post, bisogna proprio dire che il PD è fatto di gente vecchia. Pure io che ero interessato alle vicende di questo partito quando vedo le solite facce ai talk-show cambio subito canale. Non ne posso più...sempre D'Alema, Rutelli, Finocchiaro, Bersani, Turco, Letta ecc. ecc. Ecco: se non ne posso più io...chissà cosa pensano gli altri. Questa gente parla ancora nel vecchio modo e gli elettori sono decisamente stanchi. Vabbè: io la carne sul fuoco l'ho messa. Da oggi, mese per mese, farò un lavoro più ordinato e cercheremo insieme di costruire le basi che, se applicate, possano far vincere il PD. O perlomeno facciano vincere per poco Berlusconi.

Uccidere il nonno: a 15 anni (Posted: 09 Jul 2008 06:15 PM) di Marco Greselin http://www.imille.org/


Siamo fuori .... di testa (Montalbano Elicona)

mercoledì 9 luglio 2008

Lettere di Aldo Moro


Alla Democrazia Cristiana (recapitata il 28 aprile)


Dopo la mia lettera comparsa in risposta ad alcune ambigue, disorganiche, ma sostanzialmente negative posizioni della D.C. sul mio caso, non è accaduto niente. Non che non ci fosse materia da discutere. Ce n'era tanta. Mancava invece al Partito, al suo segretario, ai suoi esponenti il coraggio civile di aprire un dibattito sul tema proposto che è quello della salvezza della mia vita e delle condizioni per conseguirla in un quadro equilibrato. E' vero: io sono prigioniero e non sono in uno stato d'animo lieto. Ma non ho subito nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio. Allora ai miei argomenti neppure si risponde. E se io faccio l'onesta domanda che si riunisca la direzione o altro organo costituzionale del partito, perché sono in gioco la vita di un uomo e la sorte della sua famiglia, si continua invece in degradanti conciliaboli, che significano paura del dibattito, paura della verità, paura di firmare col proprio nome una condanna a morte. E devo dire che mi ha profondamente rattristato (non avrei creduto possibile) il fatto che alcuni amici da Mons. Zama, all'avv. Veronese, a G.B. Scaglia ed altri, senza né conoscere, né immaginare la mia sofferenza, non disgiunta da lucidità e libertà di spirito, abbiano dubitato dell'autenticità di quello che andavo sostenendo, come se io scrivessi su dettatura delle Brigate Rosse. Perché questo avallo alla pretesa mia non autenticità? Ma tra le Brigate Rosse e me non c'è la minima comunanza di vedute. E non fa certo identità di vedute la circostanza che io abbia sostenuto sin dall'inizio (e, come ho dimostrato, molti anni fa) che ritenevo accettabile, come avviene in guerra, uno scambio di prigionieri politici. E tanto più quando, non scambiando, taluno resta in grave sofferenza, ma vivo, l'altro viene ucciso. In concreto lo scambio giova (ed è un punto che umilmente mi permetto sottoporre al S. Padre) non solo a chi è dall'altra parte, ma anche a chi rischia l'uccisione, alla parte non combattente, in sostanza all'uomo comune come me. Da che cosa si può dedurre che lo Stato va in rovina, se, una volta tanto, un innocente sopravvive e, a compenso, altra persona va, invece che in prigione, in esilio? Il discorso è tutto qui. Su questa posizione, che condanna a morte tutti i prigionieri delle Brigate Rosse (ed è prevedibile ce ne siano) è arroccato il Governo, è arroccata caparbiamente la D.C., sono arroccati in generale i partiti con qualche riserva del Partito Socialista, riserva che è augurabile sia chiarita d'urgenza e positivamente, dato che non c'è tempo da perdere. In una situazione di questo genere, i socialisti potrebbero avere una funzione decisiva. Ma quando? Guai, Caro Craxi, se una tua iniziativa fallisse. Vorrei ora tornare un momento indietro con questo ragionamento che fila come filavano i miei ragionamenti di un tempo. Bisogna pur ridire a questi ostinati immobilisti della D.C. che in moltissimi casi scambi sono stati fatti in passato, ovunque, per salvaguardare ostaggi, per salvare vittime innocenti. Ma è tempo di aggiungere che, senza che almeno la D.C. lo ignorasse, anche la libertà (con l'espatrio) in un numero discreto di casi è stata concessa a palestinesi, per parare la grave minaccia di ritorsioni e rappresaglie capaci di arrecare danno rilevante alla comunità. E, si noti, si trattava di minacce serie, temibili, ma non aventi il grado d'immanenza di quelle che oggi ci occupano. Ma allora il principio era stato accettato. La necessità di fare uno strappo alla regola della legalità formale (in cambio c'era l'esilio) era stata riconosciuta. Ci sono testimonianze ineccepibili, che permetterebbero di dire una parola chiarificatrice. E sia ben chiaro che, provvedendo in tal modo, come la necessità comportava, non si intendeva certo mancare di riguardo ai paesi amici interessati, i quali infatti continuarono sempre nei loro amichevoli e fiduciosi rapporti . Tutte queste cose dove e da chi sono state dette in seno alla D.C.? E' nella D.C. dove non si affrontano con coraggio i problemi. E, nel caso che mi riguarda, è la mia condanna a morte, sostanzialmente avvallata dalla D.C., la quale arroccata sui suoi discutibili principi, nulla fa per evitare che un uomo, chiunque egli sia, ma poi un suo esponente di prestigio, un militante fedele, sia condotto a morte. Un uomo che aveva chiuso la sua carriera con la sincera rinuncia a presiedere il governo, ed è stato letteralmente strappato da Zaccagnini (e dai suoi amici tanto abilmente calcolatori) dal suo posto di pura riflessione e di studio, per assumere l'equivoca veste di Presidente del Partito, per il quale non esisteva un adeguato ufficio nel contesto di Piazza del Gesù. Sono più volte che chiedo a Zaccagnini di collocarsi lui idealmente al posto ch'egli mi ha obbligato ad occupare. Ma egli si limita a dare assicurazioni al Presidente del Consiglio che tutto sarà fatto come egli desidera. E che dire dell'On. Piccoli, il quale ha dichiarato, secondo quanto leggo da qualche parte, che se io mi trovassi al suo posto (per così dire libero, comodo, a Piazza ad esempio, del Gesù), direi le cose che egli dice e non quelle che dico stando qui. Se la situazione non fosse (e mi limito nel dire) così difficile, così drammatica quale essa è, vorrei ben vedere che cosa direbbe al mio posto l'On. Piccoli. Per parte sua ho detto e documentato che le cose che dico oggi le ho dette in passato in condizioni del tutto oggettive. E' possibile che non vi sia una riunione statutaria e formale, quale che ne sia l'esito? Possibile che non vi siano dei coraggiosi che la chiedono, come io la chiedo con piena lucidità di mente? Centinaia di parlamentari volevano votare contro il Governo. Ed ora nessuno si pone un problema di coscienza? E ciò con la comoda scusa che io sono un prigioniero. Si deprecano i lager, ma come si tratta, civilmente, un prigioniero, che ha solo un vincolo esterno, ma l'intelletto lucido? Chiedo a Craxi, se questo è giusto. Chiedo al mio partito, ai tanti fedelissimi delle ore liete, se questo è ammissibile. Se altre riunioni formali non le si vuol fare, ebbene io ho il potere di convocare per data conveniente e urgente il Consiglio Nazionale avendo per oggetto il tema circa i modi per rimuovere gli impedimenti del suo Presidente. Così stabilendo, delego a presiederlo l'On. Riccardo Misasi. E' noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte. In tanti anni e in tante vicende i desideri sono caduti e lo spirito si è purificato. E, pur con le mie tante colpe, credo di aver vissuto con generosità nascoste e delicate intenzioni. Muoio, se così deciderà il mio partito, nella pienezza della mia fede cristiana e nell'amore immenso per una famiglia esemplare che io adoro e spero di vigilare dall'alto dei cieli. Proprio ieri ho letto la tenera lettera di amore di mia moglie, dei miei figli, dell'amatissimo nipotino, dell'altro che non vedrò. La pietà di chi mi recava la lettera ha escluso i contorni che dicevano la mia condanna, se non avverrà il miracolo del ritorno della D.C. a se stessa e la sua assunzione di responsabilità. Ma questo bagno di sangue non andrà bene né per Zaccagnini, né per Andreotti, né per la D.C., né per il paese. Ciascuno porterà la sua responsabilità. Io non desidero intorno a me, lo ripeto, gli uomini del potere. Voglio vicino a me coloro che mi hanno amato davvero e continueranno ad amarmi e pregare per me. Se tutto questo è deciso, sia fatta la volontà di Dio. Ma nessun responsabile si nasconda dietro l'adempimento di un presunto dovere. Le cose saranno chiare, saranno chiare presto.

Aldo Moro

martedì 1 luglio 2008

Indro Montanelli: Un articolo pubblicato 50 anni fa circa sulla Domenica del Corriere

Per conto del «Corriere della Sera», sono stato due settimane in Israele. Non c’ero mai andato. O, per meglio dire, c’ero passato un paio di volte nei miei viaggi in Estremo Oriente, ma non mi ci ero mai fermato. Stavolta la mia intenzione era di acquartierarmi a Gerusalemme e, con l’aiuto dei miei amici israeliani, che su questo argomento la sanno più lunga di chiunque altro, studiare tutta la situazione dei paesi arabi, che circondano e minacciano il nuovo Stato ebraico. Ma, dopo un paio di giorni avevo abbandonato il progetto, anzi me lo ero completamente dimenticato, tutto preso com’ero dall’interesse che in me suscitavano le cose locali. E, invece di restare nella capitale a frugare negli archivi del ministero degli Esteri e a raccogliere le confidenze dei vari servizi d’informazione su quanto avveniva oltre confine fra i Nasser, i Kassem e gli Hussein, ho trascorso il mio tempo a vagabondare tra le fertili piane dell’alta e della bassa Galilea e il deserto di Negev. Il frutto delle mie osservazioni sono gli articoli che compaiono sul «Corriere della Sera», e non intendo farne qui un duplicato. Voglio soltanto spiegare ai miei lettori della "Domenica" per quale motivo Israele mi ha fatto tanta impressione da indurmi ad accantonare il programma che mi ero tracciato prima di venirci e su cui avevo anche preso un preciso impegno col giornale. E il motivo è questo: che finalmente in Israele ho visto documentata nei fatti una verità nella quale, sotto sotto, avevo sempre creduto, ma di cui mi mancava la prova: e cioè che non sono i paesi a fare gli uomini, ma gli uomini a fare i paesi. Sicché quando si dice "zona sviluppata", si deve sottintendere uomini e popoli energici e attivi; e quando si dice "zona depressa", si deve sottintendere uomini e popoli depressi. Tutte le altre ragioni della depressione - clima, idrografia, orografia, eccetera - sono soltanto delle comode scuse quando non sono addirittura il frutto dell’incapacità e dell’accidia umane.
I padri del deserto
Israele, finché è stato un paese arabo, cioè fino a una trentina di anni or sono, era esattamente come l’Egitto (senza il Nilo), la Giordania e l’Arabia Saudita, coi quali confina: una landa brulla e assetata, senza un albero, un seguito di colline gialle e pietrose, su cui le capre avevano divorato fin l’ultimo filo d’erba e di cui gl’incontrastati signori erano i corvi e gli sciacalli. Di zone cosiffatte nel paese ce ne sono ancora, intendiamoci, qua e là, a chiazza. Sono quelle in cui gli arabi sono rimasti. Essi hanno l’acqua, ora, perché gli ebrei sono andati a cercarsela nel fiume Giordano e nel lago di Tiberiade. E con un sistema di acquedotti di lì l’hanno portata a irrigare tutto il paese. E hanno anche i trattori, perché il governo glieli dà. E hanno anche l’assistenza dei tecnici, perché lo Stato glieli mette a disposizione. E hanno perfino, tutt’intorno, l’esempio e la lezione pratica di come si fa a trasformare una terra arida e inospitale in un paradiso di agrumeti, di boschi di pini e di cipressi, di orti lussureggianti, di campi di grano e di cotone. Eppure, non ne profittano, o ne profittano poco. I loro villaggi sono rimasti delle cimiciaie spaventose, il loro aratro ancora a chiodo si limita a grattare la superficie della terra senza preoccuparsi di ricrearvi un "humus", la loro accetta taglia spietatamente gli alberi, e le loro capre divorano sul nascere ogni accenno di vegetazione. Essi non sono affatto «i figli del deserto», come vengono chiamati nella retorica di coloro che, dei paesi arabi, conoscono solo «Le mille e una notte». Ne sono i padri. Essi non sono le vittime di un clima inclemente: «sono quelli che lo hanno provocato e aggravato, soprattutto distruggendo i boschi. E se soffrono la sete, bisogna dire che se la sono procurata rinunziando per accidia a regolare le acque, a trattenere in serbatoi la pioggia e a redistribuirla con canali. Finalmente ho capito perché gli arabi odino tanto gli ebrei. Non è la razza. Non è la religione, che li sobilla contro di essi. E’ l’atto di accusa, è la condanna, che gli ebrei rappresentano, agli occhi di tutto il mondo, qui nelle loro stesse terre, contro la loro ignavia, la loro mancanza di buona volontà, d’impegno nel lavoro, di entusiasmo pionieristico, d’intelligenza organizzativa.
Una grande avventura
Perché Israele dimostra ch’è proprio questo che manca alle zone depresse del Medio Oriente. Sono gli uomini che le abitano, non la natura o il buon Dio, che le hanno rese tali. gli ebrei le hanno prese com’erano, cioè come sono gli altri paesi tutt’intorno: con quel sole scottante, con quella mancanza di precipitazioni atmosferiche, con quelle dune di sabbia, con quelle desolate brugheire, con quelle moschee, con quella malaria. E in trent’anni di dura fatica, ogni singolo posponendo il proprio tornaconto individuale all’interesse di tutti, ogni generazione, sacrificando il proprio comodo al bene di quelle successive, della zona depressa palestinese hanno fatto la pianura padana. Oggi questo paese è in piena crisi di sovrapproduzione. Non sa più dove mettere il suo grano, le sue uova, i suoi polli, il suo cotone, i suoi aranci e i suoi pompelmi. La sua produzione di latte è, proporzionalmente, la seconda del mondo, battuta soltanto da quella olandese: il che significa che dalla pietraia ha tratto anche dei meravigliosi pascoli. In trent’anni ha piantato oltre trenta milioni di alberi, e chi si attenta a toccarne uno va in galera. E anche il clima in trent’anni è cambiato, per effetto dei boschi e dell’irrigazione. E’ stata questa meravigliosa avventura umana che mi ha ipnotizzato, facendo passare in seconda linea il mio interesse (e purtroppo anche quello del giornale) sulla politica mediorientale. Perché essa rispondeva proprio, con fatti clamorosi e incontestabili, alla domanda che mi ero sempre posto: e cioè se siano i paesi a fare gli uomini, o gli uomini a fare i paesi. Amici miei, sono gli uomini a fare i paesi: gli uomini e soltanto gli uomini, la loro volontà, la loro fatica, la loro capacità di credere e di sacrificarsi per ciò che credono. Le zone depresse esistono soltanto lì, nel loro animo rassegnato, nel loro muscoli fiacchi, nel loro indolente cervello, nella rinunzia alla lotta, nella morale del «tira a campà» e del «chi me lo fa fare», insomma nella mancanza di un senso religioso della vita, e quindi nella disposizione a trarne soltanto profitti e godimenti immediati. Ecco, questo mi ha dimostrato Israele. E mi è parso più importante della politica del Nasser, del kasse, e degli Hussein. (Indro Montanelli)