Alle medie andavo a judo, come tutti
quanti. Un cliché per un undicenne. Ero convinto che con un corso di
arti marziali sarei riuscito a superare i limiti del mio fisico
tutt'altro che imponente, addirittura speravo di arrivare a incutere un
reverenziale timore nei miei coetanei, come con naturalezza riuscivano a
fare gli amici meglio equipaggiati in peso e muscolatura. Rimasi
piuttosto deluso quando alla prima lezione - in uno scantinato che
puzzava di muffa - il maestro ci spiegò che la parola judo si poteva
tradurre come "via della gentilezza", e che avremmo imparato a usare la
forza dell'avversario per sottometterlo. Delusione, dicevo: volevo
diventare forte, io, dell'avversario me ne fregavo (continua)
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