Che l’Italia non sia più berlusconiana lo scriviamo da due anni, spesso rimproverati dalla sinistra istituzionale. Ora, con l’eccezione di Giovanardi e di alcuni pastori della Sila, lo sanno tutti. L’ecumenico sorriso di Monna Lisa Prodi è giustificato, ma non deve diventare fisso, come il ghigno da piazzista del cavaliere. Perché la strada è in salita e i sondaggi mutevoli. L’Italia non è berlusconiana, ma il potere sì. E dato che questo potere non è più temperato dalle regole della democrazia, non sarà semplice scalzarlo. In ogni paese flebilmente civile chi perde quattro elezioni di fila, l’ultima con otto punti di scarto si dimette, o quanto meno presenta le dimissioni. Ma questo è un paese dove il neuropremier vittimista è stato inquisito, stralciato, prescritto, i suoi più stretti collaboratori sono stati condannati per corruzione e appoggio alla mafia, e si è fatto finta di nulla. Perciò il nanetto di minoranza vuole dimenticare in fretta la macchinazione comunista di questo voto, e si dice pronto a cambiare la Costituzione e le leggi elettorali. Lo spalleggiano Fini e Follini, giganti che in due hanno il coraggio e l’indipendenza di pensiero di mezzo doroteo anni Sessanta. E soprattutto, il cavaliere gode dell’appoggio politico e culturale di un gruppo di picciotti padani col cinque per cento dei voti e del clan dei riformisti siciliani col cento per cento dei pizzi (continua)
Stefano Benni (Il Manifesto - Venerdì 8 aprile 2005)
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