giovedì 26 giugno 2008

Stralcio da "L'Inferno" di Giorgio Bocca

“Non siamo qui per battere cassa” ha detto l'ex ministro per il Mezzogiorno Calogero Mannino “ma per dare una risposta politica agli attacchi concentrici e ingiustificati verso il Mezzogiorno”. Ma quale è stata in questi anni la risposta politica? E stata il consolidamento elettorale dei partiti di governo, dei partiti clientelari dello sportello, che però oggi si trovano nell'amara condizione di promettere al Mezzogiorno soldi che nelle casse esauste dello stato non ci sono più. Gli imprenditori, a maggioranza, si sono adattati al nuovo modello di sviluppo. Pochi affrontano la morte o se ne vanno, i più pagano pizzi e tangenti di cui si rivalgono con lo sfruttamento del lavoro nero, la tolleranza delle autorità sugli inquinamenti, l'evasione fiscale o anche i regimi oligopolistici ottenuti grazie alla protezione mafiosa. Come se non bastasse la pressione malavitosa e clientelare ci si mette anche l'amministrazione farraginosa e vessatoria dello stato, per le operazioni più semplici della produzione richiede quattro o cinque scritture contabili. Mentire non serve, fingere che i due modelli di sviluppo siano simili è un inganno. Che lo dicano i mafiosi e i loro complici lo si può capire, ma che continui a dirlo anche una parte della borghesia meridionale, del movimento operaio meridionale è assurdo. Certo, la mafia in Sicilia e la camorra in Campania o la 'ndrangheta in Calabria sono anche delle economie di massa e azzerarle senza sostituzioni sarebbe un colpo durissimo, forse esplosivo, alla società meridionale. Ma è chiaro che continuando a proteggerle, a finanziarle si va alla bancarotta generale. Le uniche aziende mafiose che funzionino bene, al sud come al nord, sono quelle fuori dal conto economico, quelle comperate e gestite a prezzi e a costi più alti di quelli di mercato, ma l'Italia non è un circolo chiuso, sta nel mercato europeo e mondiale. Le proposte di cambiamento non mancano: c'è quella leghista del controllo degli investimenti del sud sottratti alla politica locale, affidati a organi al di fuori dei partiti. Così la proposta di investire nello sviluppo civile, nelle scuole, nell'urbanistica, nei servizi. Ci sono i schumpeteriani che contano “nella risposta creativa della storia economica”. A molti la spaccatura dell'Italia in due o in tre appare come una catastrofe, impensabile, suicida. Ma a lungo andare l'Italia che produce non potrà mantenere gli stipendi, le pensioni, i sussidi dell'Italia che consuma. A lungo andare le due politiche non ce la faranno a convivere. Tanto più se all'Europa delle nazioni si sostituirà quella delle regioni. Il razzismo del nord abitato da masse di meridionali completamente integrati è per ora marginale, folcloristico. Ma potrebbe crescere una voglia secessionistica se la seconda Italia continuasse a crescere nel peggio e a minacciare l'intero paese. Bisogna che gli italiani dell'Italia ricca diano ogni appoggio ai fratelli meridionali che hanno iniziato la loro resistenza civile. Ne abbiamo parlato poco in un resoconto di viaggio volutamente di denuncia, ma gli siamo vicini. Che Dio protegga questo sgangherato, ma amato paese.

(Chiusura del libro "L'Inferno" di Giorgio Bocca - Arnoldo Mondadori Editore - Edito nel 1992)

sabato 21 giugno 2008

Cuba 2003



E il treno và

Il treno và,
col suo tran tran continuo,
sulle rotaie
che sembrano
infinite nel tempo;

e attraversa
montagne desolate,
campagne vive,
città deserte nella notte.
Sonnolenti sguardi
ti fanno compagnia,
aspettano
come te
di raggiungere
la meta:
ognuno ha la sua.
E alle fermate
porte che s'aprono
lasciano passare
piccoli mondi
che vengono
e vanno;
volti felici
accolgono gli arrivi,
baci d'addio
vorrebbero trasmettere
quell'impotente sofferenza
che resta dentro:
e il treno và.

(da Sole Nero - L'Autore Firenze Libri - Ediz. 1994)

Per il risparmio delle risorse (Alcamo)

Il morso del Caimano di CURZIO MALTESE

È un po' ingenuo, anzi molto, stupirsi che Berlusconi sia tornato Caimano. Se esiste una persona fedele a se stessa, oltre ogni umana tentazione di dubbio o di noia, questa è il Cavaliere. Era così già molto prima della discesa in politica, con la sua naturale carica eversiva, il paternalismo autoritario, l'amore per la scorciatoia demagogica e il disprezzo irridente per ogni contropotere democratico, a cominciare dalla magistratura e dal giornalismo indipendenti, l'insofferenza per le regole costituzionali, appresa alla scuola della P2. Il problema non è mai stato quanto e come possa cambiare Berlusconi, che non cambia mai. Piuttosto quanto e come è cambiata l'Italia, che in questi quindici anni è cambiata moltissimo. In parte grazie all'enorme potere mediatico del premier.
Ogni volta che Berlusconi ha conquistato Palazzo Chigi ha provato a forzare l'assetto costituzionale e per prima cosa ha attaccato con violenza la magistratura. Lo ha fatto nel 1994 con il decreto Biondi, primo atto di governo; nel 2001, quando i decreti d'urgenza sulla giustizia furono presentati prima ancora di ricevere la fiducia; e oggi. Con una escalation di violenza nei toni e, ancor di più, nei contenuti dei provvedimenti. Il pacchetto giustizia di oggi è più eversivo della Cirami e del lodo Schifani, a sua volta più eversivi del "colpo di spugna" del '94. Ma, alla crescente forza delle torsioni imposte da Berlusconi agli assetti democratici, ha corrisposto una reazione dell'opinione pubblica sempre più debole. Nel '94 la rivolta contro la "salva-ladri" azzoppò da subito un governo destinato a durare pochi mesi. Nel 2001 i "girotondi" inaugurarono una stagione di movimenti, con milioni di persone nelle piazze, che si tradussero fin dal primo anno in una serie di pesanti sconfitte elettorali per la maggioranza di centrodestra, pure larghissima in Parlamento. La terza volta, questa, in presenza di un tentativo ancora più clamoroso di far saltare i cardini della magistratura indipendente, la reazione è molto debole. L'opposizione, accantonate le illusioni di dialogo, annuncia una stagione di lotte, ma non ora, in autunno. La cosiddetta società civile sembra scomparsa dalla scena. I magistrati sono gli unici a ribellarsi con veemenza, ma sembrano isolati, almeno nei sondaggi. Quasi difendessero la propria corporazione e non i diritti e la libertà di tutti, così come l'hanno disegnata i padri della Costituzione.
Ecco che la questione non è che cosa sia successo a Berlusconi (nulla), ma che cosa è successo al Paese. Siamo davvero diventati un "paese un po' bulgaro", come si è lasciato sfuggire il demiurgo pochi giorni fa? La risposta, purtroppo, è sì.
In questo quarto di secolo che non ha cambiato Berlusconi, l'Italia è cambiata molto e in peggio, il tessuto civile e sociale si è logorato, il senso comune è stato modellato su pulsioni autoritarie. Molti discorsi che si sentono negli uffici, nei bar, sulle spiagge oggi, da tutti e su tutto, si tratti di immigrazione o di giustizia, di diritti civili come di religione, di Europa o di sindacati, nell'Italia del '94 sarebbero stati inimmaginabili. Il berlusconismo è partito dalla pancia di un Paese dove la democrazia non si è mai compiuta fino in fondo, per mille ragioni (ragioni di destra e di sinistra), ma ora ha invaso tutti gli organi della nazione ed è arrivato al cervello. La mutazione genetica della società italiana è evidente a chi ci guarda da fuori. Perfino negli aspetti superficiali, di pelle: non eravamo mai stati un popolo "antipatico", com'è oggi. Più seriamente, il ritorno di Berlusconi al potere e le sue prime e devastanti uscite hanno evocato i peggiori fantasmi sulla scena internazionale. Si tratta però di vedere se il "caso Italia" è tale anche per gli italiani. Se nell'opinione pubblica esistano ancora quei reagenti democratici che hanno impedito nel '94 e nel 2001 la deriva, più o meno morbida, verso un regime. I segnali sono contraddittori, la partita è aperta. Certo, in questi decenni la forza d'urto del populismo berlusconiano è andata crescendo, così come la presa su pezzi sempre più ampi di società. Non si tratta soltanto di potere delle televisioni o dell'editoria, ma di una vera e propria egemonia culturale. E sorprende che nell'opposizione, gli ex allievi di Gramsci, ancora oggi, a distanza di tanto tempo, non comprendano i meccanismi e la portata della strategia in atto. Altro che "l'onda lunga" di craxiana memoria. Anche loro, purtroppo, non cambiano mai. Si erano illusi (ancora!) di trasformare Berlusconi in uno statista, offrendogli un tavolo di trattative. S'illudono (ancora!) di poter resistere con la politica del "giù le mani" e con l'arroccarsi nelle regioni rosse, che sono già rosa pallido e rischiano prima o poi di finire grigie o nere. In attesa di tempi migliori. Non ci saranno tempi migliori per l'opposizione. Bisogna trovare qui e ora il coraggio di proposte forti e alternative al pensiero unico dominante, invenzioni in grado di suscitare dibattito e bucare così la plumbea egemonia "bulgara" dell'agenda governativa. Bisogna farsi venire qualche idea, anzi molte, una al giorno, per svegliare l'opinione pubblica democratica dal torpore ipnotico con cui segue gli scatti in avanti di Berlusconi. Lo stesso torpore ipnotico che coglie la preda davanti alle mosse del caimano. Che alla fine, attacca.

(da La Repubblica del 21 giugno 2008)

Più ricicli, più aiuti (Alcamo)

mercoledì 11 giugno 2008

La quercia del Tasso

Quell'antico tronco d'albero che si vede ancor oggi sul Gianicolo a Roma, secco, morto, corroso e ormai quasi informe, tenuto su da un muricciolo dentro il quale è stato murato acciocché non cada o non possa farsene legna da ardere, si chiama la quercia del Tasso perché, avverte una lapide, Torquato Tasso andava a sedervisi sotto, quand'essa era frondosa. Anche a quei tempi la chiamavano così. Fin qui niente di nuovo. Lo sanno tutti e lo dicono le guide. Meno noto è che, poco lungi da essa, c'era, ai tempi del grande e infelice poeta, un'altra quercia fra le cui radici abitava uno di quegli animaletti del genere dei plantigradi, detti tassi. Un caso. Ma a cagione di esso si parlava della quercia del Tasso con la "t" maiuscola e della quercia del tasso con la "t" minuscola. In verità c'era anche un tasso nella quercia del Tasso e questo animaletto, per distinguerlo dall'altro, lo chiamavano il tasso della quercia del Tasso. Alcuni credevano che appartenesse al poeta, perciò lo chiamavano "il tasso del Tasso"; e l'albero era detto "la quercia del tasso del Tasso" da alcuni, e "la quercia del Tasso del tasso" da altri. Siccome c'era un altro Tasso (Bernardo, padre di Torquato, poeta anch'egli), il quale andava a mettersi sotto un olmo, il popolino diceva: "E' il Tasso dell'olmo o il Tasso della quercia?". Così poi, quando si sentiva dire "il Tasso della quercia" qualcuno domandava: "Di quale quercia?". "Della quercia del Tasso." E dell'animaletto di cui sopra, ch'era stato donato al poeta in omaggio al suo nome, si disse: "il tasso del Tasso della quercia del Tasso". Poi c'era la guercia del Tasso: una poverina con un occhio storto, che s'era dedicata al poeta e perciò era detta "la guercia del Tasso della quercia", per distinguerla da un'altra guercia che s'era dedicata al Tasso dell'olmo (perché c'era un grande antagonismo fra i due). Ella andava a sedersi sotto una quercia poco distante da quella del suo principale e perciò detta: "la quercia della guercia del Tasso"; mentre quella del Tasso era detta: "la quercia del Tasso della guercia": qualche volta si vide anche la guercia del Tasso sotto la quercia del Tasso. Qualcuno più brevemente diceva: "la quercia della guercia" o "la guercia della quercia". Poi, sapete com'è la gente, si parlò anche del Tasso della guercia della quercia; e, quando lui si metteva sotto l'albero di lei, si alluse al Tasso della quercia della guercia. Ora voi vorrete sapere se anche nella quercia della guercia vivesse uno di quegli animaletti detti tassi. Viveva. E lo chiamarono: "il tasso della quercia della guercia del Tasso", mentre l'albero era detto: "la quercia del tasso della guercia del Tasso" e lei: "la guercia del Tasso della quercia del tasso". Successivamente Torquato cambiò albero: si trasferì (capriccio di poeta) sotto un tasso (albero delle Alpi), che per un certo tempo fu detto: "il tasso del Tasso". Anche il piccolo quadrupede del genere degli orsi lo seguì fedelmente, e durante il tempo in cui essi stettero sotto il nuovo albero, l'animaletto venne indicato come: "il tasso del tasso del Tasso". Quanto a Bernardo, non potendo trasferirsi all'ombra d'un tasso perché non ce n'erano a portata di mano, si spostò accanto a un tasso barbasso (nota pianta, detta pure verbasco), che fu chiamato da allora: "il tasso barbasso del Tasso"; e Bernardo fu chiamato: "il Tasso del tasso barbasso", per distinguerlo dal Tasso del tasso. Quanto al piccolo tasso di Bernardo, questi lo volle con sé, quindi da allora quell'animaletto fu indicato da alcuni come: il tasso del Tasso del tasso barbasso, per distinguerlo dal tasso del Tasso del tasso; da altri come il tasso del tasso barbasso del Tasso, per distinguerlo dal tasso del tasso del Tasso. Il comune di Roma voleva che i due poeti pagassero qualcosa per la sosta delle bestiole sotto gli alberi, ma fu difficile stabilire il tasso da pagare; cioè il tasso del tasso del tasso del Tasso e il tasso del tasso del tasso barbasso del Tasso.

Da Manuale di Conversazione di Achille Campanile (Rizzoli)

Castellammare del Golfo

venerdì 6 giugno 2008

Quando sul video va in onda la censura (Enzo Biagi)

Durante la guerra del Vietnam, le reti televisive americane andarono ad Hanoi a intervistare Ho Chi Minh. Qualche settimana fa, nel momento più acuto della crisi con la Libia, Ted Koppel, uno dei più prestigiosi giornalisti dalla «Abc», si è collegato con Tripoli, e ha dato la parola al colonnello. Nel mio piccolo, ho fatto altrettanto: convinto, come sono, che «la completezza dell’informazione» non deve essere soltanto una formula demagogica ma, nei limiti del possibile, un impegno costante dell’onesto cronista. Gheddafi mi ha ricevuto con cortesia, e ha accettato le mie domande e le mie obiezioni, che io ho registrato lealmente, senza apportare tagli, o aggiustamenti. Alle due del pomeriggio, molto prima che accadessero i fatti di Lampedusa, il direttore del Tg1, Albino Longhi, mi ha informato che, per disposizione del dottor Biagio Agnes, sommo dirigente di viale Mazzini, il programma «Spot» non sarebbe andato in onda; era previsto un prolungamento del Telegiornale: nel quale, caso strano, non poteva entrare il mio colloquio con il capo della Jamahirya. Se ne poteva riparlare, magari più avanti, o in altre circostanze. Nessun chiarimento: e intanto la Rai presentava la trasmissione, nelle sedi di Roma e di Milano, ai corrispondenti stranieri e ai redattori dei nostri quotidiani. Il testo veniva diffuso integralmente dall’Ansa, i grandi «networks» degli USA chiedevano il nastro per trasmetterlo. Non so se sono stati accontentati. Questa storia non è importante perché mi ci trovo dentro, ma suscita qualche considerazione di carattere generale. Penso di aver fatto con correttezza il mio lavoro, e sono convinto che tutti i miei colleghi dei paesi considerati democratici si sarebbero comportati nella stessa maniera. Mi chiedo chi poteva avere interesse a impedire la diffusione di quelle riprese, senza averle viste, senza neppure sapere che cosa raccontavano. Palazzo Chigi ha smentito qualunque intervento; dicono che c’era invece un ministro preoccupato: delle sue azioni, o delle mie parole, o di quelle del leader arabo? L’ordine pubblico era forse minacciato? Ma chi deve decidere ciò che gli italiani possono leggere, ascoltare, o vedere? Il dottor Agnes, e chi guida la polizia, faccio una ipotesi, e quelli del tavolone, erano tutti daccordo? Ma non è più saggio preoccuparsi dei terroristi che dei fotogrammi? Si dice che il più «prudente» degli intervenuti sia stato il socialdemocratico onorevole Nicolazzi: è nel suo carattere. Sono anni che è indeciso su come sistemare il problema dell’edilizia. Uno che è d’accordo col vertice della Tv pubblica è l’onorevole Bodrato, che parla senza sapere quello che dice: il divieto è stato messo in atto prima che fossero sparati i due colpi fatali. O è un profeta oppure scegliete voi. Milioni di spettatori hanno atteso - mi regolo su indici di ascolto ufficiali - «Spot», senza che qualcuno si prendesse il disturbo di avvertirli che era saltato. Io sono un vecchio del mestiere, e ritengo di meritare il rispetto che si deve alle persone che, come minimo, agiscono in buona fede. E uno che una vicenda come questa ha corso forse anche questo rischio, e mi era dovuta una spíegazione. Ma come fa Cossiga a proclamare che «è preferibile un eccesso di libertà piuttosto che un difetto quando in questa Repubblica fondata sul lavoro sulla lottizzazione, le «veline» stanno diventando una regola, e quello che più conta non è la presumibile verità, ma la superiore disposizione? E chi ha detto che la censura è stata abolita? Qui non si controlla neppure: si comanda, e con arroganza. Io invidio Piero Angela, perché è tanto bravo e perché si occupa di castori, di maree, di atomi, bacarozzi, della natura e della scienza, che sono protagonisti splendidi e crudeli, meravigliosi e meschini, ma non rientrano nella logica dei partitici potenti. Mi sono illuso che si potesse far qualcosa, sui teleschermi, anche con le trame degli uomini, buoni cattivi, generosi e miseri, e delle loro avventure non mi sento giudice, ma testimone, e qualche volta complice. Errore: nella Tv di Stato non si esce, questo mi suggeriscono le ultime esperienze, dalla strategia della tavola rotonda: due battute a testa, moderatore, ed ecco il consueto minuetto, con primi piani dei soliti nomi, convocati, come sempre, per l’emergenza.
Di questo mediocre dramma, tutto ciò che più mi ha colpito, e vorrei si credesse alla mia sincerità, è il disprezzo per la gente. Alla quale si nega un servizio, cioè il diritto di sapere cosa dicono anche quelli che non la pensano come noi, ricorrendo a giustificazioni offensive: è un eccesso di presunzione considerare tutti gli altri dei cretini. Non è generoso, soprattutto per dei cristiani a denominazione controllata: non dovrebbero dimenticare che, in ogni modo, siamo tutti fratelli.

Tratto dal libro "Il Fatto" di Enzo Biagi

Fotografie

Agorà

Una piazza,
la nostra (maestosa) città è tutta qua:
una piazza, una grande piazza
nella quale tutti transitiamo e ci intratteniamo
per qualche secondo o poche ore.
C'è il venditor di cianfrusaglie,
il politico prolisso,
il filosofo alienato,
il barbone ubriaco,
il gendarme integerrimo,
lo scolaretto che marina la scuola,
la massaia con la borsa della spesa,
il ladruncolo col bottino,
il pazzo scanzonato
ed il musicista, pittore, poeta ed attore.
C'è chi arriva e chi già se ne va
mentre gli astri dal cielo
ci guardano
e ridono (di noi).

Da Fuoco di Paglia (Rino Porrovecchio - Ediz. Libroitaliano World - 2006)

Barca a secco

mercoledì 4 giugno 2008

Lettere di Aldo Moro

A Giulio Andreotti (recapitata il 29 aprile)

Caro Presidente, so bene che ormai il problema, nelle sue massime componenti, è nelle tue mani e tu ne porti altissima responsabilità. Non sto a descriverti la mia condizione e le mie prospettive. Posso solo dirti la mia certezza che questa nuova fase politica, se comincia con un bagno di sangue e specie in contraddizione con un chiaro orientamento umanitario dei socialisti, non è apportatrice di bene né per il Paese né per il Governo. La lacerazione ne resterà insanabile. Nessuna unità nella sequela delle azioni e reazioni sarà più ricomponibile. Con ciò vorrei invitarti a realizzare quel che si ha da fare nel poco tempo disponibile. Contare su un logoramento psicologico, perché son certo che tu, nella tua intelligenza, lo escludi, sarebbe un drammatico errore. Quando ho concorso alla tua designazione e l'ho tenuta malgrado alcune opposizioni, speravo di darti un aiuto sostanzioso, onesto e sincero. Quel che posso fare, nelle presenti circostanze, è di beneaugurare al tuo sforzo e seguirlo con simpatia sulla base di una decisione che esprima il tuo spirito umanitario, il tuo animo fraterno, il tuo rispetto per la mia disgraziata famiglia. Quanto ai timori di crisi, a parte la significativa posizione socialista cui non manca di guardare la D.C., è difficile pensare che il PCI voglia disperdere quello che ha raccolto con tante forzature. Che Iddio ti illumini e ti benedica e ti faccia tramite dell'unica cosa che conti per me, non la carriera cioè, ma la famiglia.
Grazie e cordialmente tuo Aldo Moro

On. Giulio Andreotti
Presidente del Consiglio dei Ministri

Particolare Villa Palagonia (Bagheria)

Era una tranquilla giornata di primavera

SIAMO NELLA NORMALITÀ...
tratto da L’Espressodi domenica 19 maggio 1991 (Anno XXXVII - N. 20)

Era una bella giornata di primavera. Il nevischio mummificava le rondini e raffiche ai duecento orari schiantavano gli alberi.
Siamo nella normalità — disse l’infallibile Meteorologo — poiché un tempo simile, anzi peggiore, si ebbe nel marzo 1626 e non c’è da allarmarsi se per qualche settimanella dal Polo arriva uno spifferino di aria fredda. In quell’istante attraverso la finestra aperta un refolo di vento trasportò un tricheco di una tonnellata, che piombò sulla scrivania del meteorologo uccidendolo.
— Averlo saputo prima... — sospirò il meteorologo, prima di esalare l’anima sotto forma di cirro-cumulo.
Era una tranquilla domenica calabrese. Le pallottole ronzavano pigre e solo ogni tanto un colpo di bazooka interrompeva il monotono frinire dei mitra.
— Siamo nella normalità — disse l’incorruttibile Magistrato — in quanto molti dei presunti mafiatori erano in realtà pacifici agricoltori, l’uso della tangente camorristica è un normale meccanismo promozionale, e non è vero che il danaro mafioso abbia invaso banche, case cinematografiche e settori immobiliari: come giustamente disse Gava, la mafia va conosciuta, prima di combatterla. In quell’istante un consorzio di quattro cosche irruppe nel suo ufficio, lo decapitò e iniziò a giocare a calcio con la sua testa, e poiché non si mettevano d’accordo su chi doveva stare in porta, si uccisero tutti vicendevolmente.
— Averlo saputo prima — sentenziò la testa del magistrato mentre la sua anima faceva ricorso contro i seimila anni di inferno in prima istanza.
Era un tranquillo pomeriggio nella fosca e turrita Bologna. I benzinai attendevano i clienti nelle loro trincee e gli armaioli controllavano i Patriot.
— Siamo nella normalità — disse il Ministro dell’Interno — questa Falange armata non è certo nata dai gloriosi patrioti della Gladio o dai nostri ormai trasparentissimi servizi segreti, la strategia della tensione e le squadracce sono un ricordo del passato, trattasi di zingarelli che si disputano pochi etti di cocaina. In quel momento la solita Fiat Uno apparve in fondo alla strada e crivellò il ministro, la scorta e dodici passanti tanto per gradire.
Averlo saputo prima — disse il Ministro, mentre la sua anima, grazie a raccomandazioni, scendeva all’Ade in Business class.
Era una tranquilla giornata di primavera. Il Bangladesh non c’era più, il colera decimava il Sudamerica e Saddam si riarmava, ma la Borsa era stabile. L’economia italiana vagava sorridendo nella nebbia tra abissi e voragini.
— Siamo nella normalità — disse Cirino Pomicino — abbiamo un deficit tra il milione o il miliardo di miliardi, ma tasseremo i generi di lusso come le aragoste, lo champagne, le pensioni e le malattie tropicali. Nel nostro paese non c’è spreco, né povertà. In quel momento alcuni bruti senza-casa, senza-lavoro, senza-patria e senza-pensione piombarono su Cirino Pomicino, lo divorarono vivo e gli succhiarono anche le chele.
Averlo saputo prima — disse il ministro, mentre la sua anima volava nel limbo degli Incompetenti.
Era una tranquilla giornata di primavera alla casina Valadier. Ciarrapico portava cannoli alla crema a Cossiga, Andreotti e Craxi riuniti per un consulto sulla fibrillazione della democrazia. Siamo nella normalità — disse Andreotti — per le elezioni faremo una scheda nuova. Gli italiani potranno scegliere se sono (a) un popolo di pecoroni governato da mediocri, (b) un popolo di mediocri governato da delinquenti, (c) un popolo di delinquenti governato da delinquenti. Che si chiami Prima o Seconda Repubblica, non cambierà niente: saremo sempre noi. Sarà solo difficile trovar posto per la folla crescente di maggiordomi, balilla, conformisti e nullità riciclate con cui abbiamo imbottito le reti televisive. Ma mentre i tre sghignazzavano, i terribili collettivi Baoding sbucarono fuori dai cannoli e li cremarono.
Averlo saputo prima... — dissero le tre anime mentre andavano a reincarnarsi in tre cozze.

Era una tranquilla giornata di primavera, ed era anche l’ultima puntata di “Cronache di regime”. L’autore rassicurò gli estimatori, informò i neutrali e minacciò gli ostili che sarebbe rimasto tra i collaboratori dell’“Espresso”. Comunque, addio, pagina 45 (o 47). E pensare che quando avevamo messo nel titolo della rubrica la parola “regime” qualcuno aveva detto: «esagerati!». Da oggi, si gioca più duro. Vi ringrazio e vi saluto cordialmente.

Stefano Benni


domenica 1 giugno 2008

Squillace

Io speriamo che me la cavo

Tema: Milano, Roma, Napoli, sono le tre città più importanti d'Italia. Ricordi le loro caratteristiche?

Milano, Roma, Napoli, sono le tre città più importanti d'Italia. Ricordi le loro caratteristiche? Sì.
Incominciamo da Milano, che è la più alta. Milano è la capitale della Lombardia. Essa come il Piemonte non ha il mare, però ha le montagne. Milano è la città più ricca e grande d'Italia: lì si comanda a tutte le industrie d'Italia. Tutte le industrie stanno tutte a Milano, anche il libro,
Leggere in V. A Milano la gente è tutta ricca, uno è più ricco di un altro, non esistono i poveri. Un povero che chiede la carità a Milano, non è di Milano, è di Foggia. Le persone non si guardano tanto in faccia a Milano, un vicino di casa è come fosse un lontano di casa! Se vai a faccia a terra a Milano e a Bergamo nessuno ti alza: ti lasciano sulla via, soprattutto a Bergamo alta. A Napoli invece ti alzano. A Milano c'è sempre la neve, il freddo, la nebbia, l'umidità; i panni spasi non si asciugano mai, solo a Ferragosto!
E ora voglio parlare di Roma. A Roma sono tutti buffoni. La Roma per una volta che ha vinto lo scudetto, sono sempre buffoni. Però sono anche un poco simpatici. Essi ci chiamano «cugini». Roma è la capitale del Lazio e la capitale d'Italia. A Roma c'è lo Stato e c'è pure il Papa, e comandano tutti e due, però il papa a tutto il mondo. Il papa non è venuto mai a Napoli per paura che gli chiedono i soldi. Roma è piena di monumenti, Milano no, uno solo. A Roma ci sono le rovine di Roma. Nerone non la incendiò, ce lo ha detto il nostro maestro. Roma è grandissima, però è pura sporca.
E ora voglio parlare di Napoli. Io una volta ci sono andato a Napoli. Era pulita. Però forse non ho visto bene. A Napoli ci sono tutti i ladri, mariuoli, assassini e drogati. Il mare è una latrina. Vendono le cozze usate. Un bambino di Arzano se si sperde lo sequestrano. Se viene un terremoto di un minutino le case subito si sfracellano. I disoccupati sono un milione e mezzo. Ci sono venti figli in una stessa casa. Nel traffico suonano come i pazzi. C'è la camorra nel Duomo.
Io di tutte e tre le città non me ne vorrei andare a vivere in nessuna di tutte e tre le città.

da ”Io Speriamo Che Me La Cavo” (Marcello D'Orta)

Squillace (Particolare del Castello)